Guardavo sconsolato tutte le cose che si erano accumulate in quella stanza nei mesi di punizione e non sapevo decidere quali mi fossero veramente indispensabili, nella lunga trasferta che mi attendeva, e quali fossero invece superflue.
L’ingombrante chitarra, il mangiacassette, tutto il materiale di disegno, le riviste, i libri.
Si poneva anche il problema di continuare o meno l’accordo con Michele per l’affitto della stanza, visto che probabilmente da quel momento in poi non mi sarebbe più servito.
Alla fine avevo deciso di lasciare lì la maggior parte delle mie cose, riservandomi poi di rientrare temporaneamente a Roma per riprendermele con comodo e definire la cosa con il mio socio quando l’avessi incontrato a Reggio.
Mi sarei portato dietro solo la chitarra, anche se mi sarebbe stata di impiccio nel lunghissimo viaggio in treno che mi attendeva, prima per arrivare a Ravenna e poi per tornare indietro fino all’estrema punta della penisola.
Naturalmente anche quella notte la passai piuttosto agitata, con brevi periodi di sonno intervallati a lunghe veglie durante le quali, curiosamente, non feci che pensare a Chiara ed al suo atteggiamento del giorno prima, ma senza riuscire a seguire un filo logico.
Quello di passare le notti insonni stava diventando un vizio poco piacevole e l’idea che anche quella che mi aspettava sarebbe stata anche peggio (visto che l’avrei passata in treno o nella sala di aspetto di Bologna) non mi rincuorava certo.
Avevo i nervi a fior di pelle quando salii per l’ultima volta sul trenino che mi avrebbe portato a Piazzale Flaminio, con la chitarra in spalla e trascinandomi il valigione strapieno.
Il treno era piuttosto affollato, ma questo non mi impedì di intravedere, quasi in fondo alla carrozza dove ero salito, le due ragazze del giorno prima. Per non farmi scorgere mi fermai nel primo posto libero ficcandomi la valigia sotto le gambe e la chitarra sopra.
Riflettei sull’ironia della situazione. Avevo iniziato la settimana con la volontà di trovarmi una ragazza e dovevo ammettere che di opportunità ne avevo avute, come non mi sarei certo aspettato. Compresa quella tizia carina che stava ignara alcuni sedili più avanti a me, con la sua solita sigaretta indolente tra le dita tenute alte. Il giorno precedente aveva mostrato un interesse piuttosto esplicito nei miei confronti, ma io non ero riuscito a reagire, incartato come mi ero con la storia di Chiara.
A quel punto era ormai tutto inutile. Reggio Calabria aveva cancellato in un solo istante tutte le mie titubanze e tutte le mie illusioni.
Quando arrivammo in stazione rimasi seduto per lasciar defluire la gente e non trovarmi impicciato coi miei bagagli. Le due ragazze si alzarono invece per tempo e quella carina si voltò distrattamente verso di me. Per un attimo si soffermò a guardarmi, come sorpresa, ma poi si rigirò a seguire il flusso di quelli che stavano scendendo. Probabilmente era stata più incuriosita dalla chitarra che dal ricordo di me. Chissà se l’amica l’aveva poi scritta quella lettera.
Alla fine anch’io mi decisi.
Provavo un vago sentimento di angoscia mentre mi incamminavo tutto storto, per bilanciare il peso della valigia, e con la chitarra a tracolla. Per un attimo mi balenò nella mente il pensiero di abbandonare tutto, scappare a casa e non farmi più rivedere da queste parti. Sentivo un groppo crescente alla gola e avevo un gran desiderio di mettermi a piangere, ma non era certamente quello il momento giusto.
Attraversai la via Flaminia e mi diressi verso il cancello che dava nel cortile dove tenevamo i nostri automezzi.
Appoggiato al cancello, intento a guardare il traffico sulla via Flaminia, ci trovai Massi che era il nostro magazziniere, meccanico e uomo tuttofare.
“Ti lascio la mia roba, come al solito.” gli dissi prima ancora di averlo raggiunto.
“Vieni, vieni.” mi rispose, facendosi da parte per poi accompagnarmi zoppicando fino al magazzino dove appoggiai la valigia e la chitarra in un angolo.
Non ci pensò un attimo a sfilare la chitarra dalla sua custodia.
Massi era un uomo già avanti con gli anni. Credo che fosse più vicino ai cinquanta che ai quaranta. Portava un folto pizzetto nero con striature bianche, molto curato, che gli dava un’espressione un po’ dandy che contrastava con un fisico invece piuttosto tarchiato.
Un tempo anche lui era stato un tecnico di campagna, fino a quando non gli si ruppero i freni della macchina e precipitò in un piccolo dirupo in Sicilia. Lo estrassero a fatica dalle lamiere, più morto che vivo, ed ebbero un bel daffare per rimettergli in sesto una gamba maciullata. Ne venne fuori dopo molti mesi, ma la gamba gli rimase zoppa. Non essendo più in grado di svolgere il lavoro di campagna, l’azienda lo riconvertì a responsabile dei mezzi e del magazzino. Da allora nessuno ebbe più modo di lamentarsi dello stato delle macchine.
Quando io fui assunto svolgeva già quella mansione e quando fui messo in punizione avemmo modo di conoscerci meglio.
Tra noi c’era una certa simpatia. Io mi appoggiavo a lui quasi come ad un secondo padre e lui sembrava contento nella parte del vecchio saggio che si era data. In realtà in ufficio quasi tutti lo trovavano un po’ svanito e non molto intelligente e spesso lo prendevano in giro. Io però sapevo che sotto quell’aria svagata c’era un’intelligenza brillante.
E poi c’era una cosa che ci accomunava sopra ogni altra: suonavamo entrambi la chitarra. Ad essere sinceri era lui che suonava la chitarra, io ci provavo solamente.
Lui però suonava la chitarra classica, con le dita, a differenza di me che utilizzavo il plettro, e quando si metteva a suonare io rimanevo affascinato e invidioso ad ascoltare pezzi spagnoleggianti che non conoscevo, e gli perdonavo volentieri le numerose stecche che prendeva a causa, a suo dire, del manico troppo stretto del mio strumento (come è risaputo, una chitarra classica ha il manico più largo).
Anche quel giorno, dopo essersi impossessato della mia chitarra, si era subito messo seduto, in posa tipica; gambe divaricate, chitarra appoggiata alle cosce e manico rigorosamente all’altezza della spalla. Senza pensarci su un attimo, come invece facevo sempre io titubante, stava già suonando “Giochi proibiti” con una scioltezza e un trasporto che mi fece subito tornare il groppo alla gola.
Le note arpeggiate del brano mi fluivano dalle orecchie direttamente al cuore, aumentando sempre più il senso di oppressione e solitudine che ancora mi trascinavo dalla sera prima.
Diedi un colpo di tosse per ricacciare indietro le lacrime che stavano sempre in agguato dietro le ciglia. Massi non si curò del rumore molesto, troppo preso nella sua esibizione, ma ad un certo punto si interruppe di colpo ed interruppe la magia di quel brano. Si alzò in piedi e rimise la chitarra nel suo fodero.
“Non ti vedo in forma” disse, quasi parlando a se stesso.
“Lunedi devo essere a Reggio Calabria” risposi con lo stesso tono.
“Lo so.” disse, abbracciandomi le spalle. “Tu non hai santi in paradiso.”
Mi imbarazzava essere toccato perciò mi divincolai con noncuranza.
“Cosa vuol dire?” chiesi.
“Caro mio, tu per l’azienda sei uno sacrificabile.” declamò, agitando le mani per aria.
“In che senso sacrificabile?”
Ridacchiò. “Non certo in senso fisico! Intendo che a te certi sacrifici si possono chiedere. Sei giovane, non impegnato, nel senso che sei libero da impegni sentimentali, lontano da casa. Quindi… sei sacrificabile.”
Non riuscivo proprio a seguire il senso di questo discorso. Tra l’altro lui si era anche messo a trafficare sul bancone degli attrezzi e mi parlava girandomi le spalle e con lo stesso tono di chi stia commentando il tempo meteorologico.
“Guarda che stamattina non mi gira e non ti capisco.” dissi un po’ urtato.
Lui si girò e mi puntò contro un cacciavite.
“Ti sei chiesto come mai Michele rientra a fine mese?”
“Si vede che la sua missione finisce a quella data.” risposi stupito.
Scosse la testa. “La missione di Michele era di cinque mesi.” disse sicuro. “Lo so perché glielo ho preparato io il mezzo, assieme a tutto il materiale da portare via.”
Scossi la testa. “Ma se ho sentito io Chiara che diceva che rientrava a fine mese.”
“Certo, doveva rientrare per fare il punto coi capi, poi però doveva tornare giù subito. Invece non ci torna e ci vai tu al suo posto.”
“Forse c’è in ballo una nuova commessa e hanno deciso di affidarla a lui. Francesco era l’unico libero, ma proprio ieri è partito per…”
“Non ci sono nuove commesse.” mi interruppe, tornando a lavorare sul bancone “Michele se ne starà qui a Roma a grattarsi la pancia.”
Mi sedetti. “Ma che senso avrebbe tutto questo?” chiesi dubbioso.
Lui si girò di nuovo e venne verso di me trascinandosi dietro un’altra sedia. Mi si sedette accanto.
“Amico mio, ragiona. Tu eri in punizione e adesso ti danno una grossa missione tutta per te. Ti pare normale?”
Mi strinsi nelle spalle.
“Michele ha chiesto di rientrare e loro l’hanno accontentato.” continuò.
“E perché avrebbe chiesto di rientrare?”
“Perché lui tiene famiglia. La moglie e la figlia avrebbero dovuto raggiungerlo questa estate per stare insieme, me l’ha detto lui. Adesso invece lui rientra e vai giù tu. E sai perché?”
“No.”
“Perché a Reggio sta per scoppiare un gran casino e non è il caso che un padre di famiglia rischi di farsi male. Chi ci possiamo mandare? Oh, ci sarebbe Bruno… è giovane, solo…” fece una pausa di effetto, poi continuò: “…sacrificabile!”
“Ma non dire fregnacce!” protestai.
Si alzò, battendosi platealmente le mani sulle cosce.
“Lo vedrai se sono fregnacce, quando telefonerai disperato per chiedere di farti rientrare e ti risponderà Michele per dirti di restare là.”
“Figurati se uno come Michele ha paura di stare in mezzo ai casini.” dissi alzandomi a mia volta.
“Lui non ha paura.” convenne “È la moglie che ha paura. E lui fa quello che gli dice la moglie.”
Ebbi una illuminazione: “Se fosse come dici tu metterebbero Michele a fare le analisi al mio posto, invece so che assumono uno proprio per questo!”
Rise: “Guarda che Michele ha una laurea. Figurati se si mette a fare il ragazzo di bottega. Lui è dottore, ahò! Lo impiegheranno nella interpretazione dei dati o nei contatti coi clienti. Un lavoro glielo trovano, vai tranquillo. Così la moglie lo potrà vedere tutti i fine settimana e sarà contenta, mentre tu… ”. Mi diede una leggera spintarella sulla spalla.
“Fammi andare a lavorare, va’, altrimenti non mi fanno partire” dissi, strizzandogli l’occhio.
Mi diressi verso il cancello, ma prima di raggiungerlo mi girai un attimo e dissi: “Quando sarò giù, glielo chiederò a Michele. E dirò che sei stato tu a dirmele queste cose.”
Lui annuì vigorosamente con la testa.
Mi incamminai lungo l’isolato per raggiungere il portone di accesso. I discorsi di Massi mi avevano reso ancora più abbacchiato. La giornata era cominciata male, ma sembrava volesse proseguire peggio. Comunque in fondo non trovavo così terribile che Michele volesse stare vicino alla famiglia e onestamente io ero certo più ‘sacrificabile’ dal punto di vista dell’azienda. Ero però convinto che quella dei casini a Reggio fosse una scusa della moglie. Era più probabile che lei non avesse nessuna voglia di raggiungerlo in missione, quindi si era inventata questa storia. Come se a Roma non ce ne fossero di casini.
Infilai il portone e cominciai a salire lentamente le scale. Ero un po’ deluso da Michele a dire il vero. Poteva tranquillamente parlarne con me. Sarei stato pronto ad offrirmi, anche perché per me era una opportunità non da poco di uscire dall’isolamento e conquistarmi nuovamente la fiducia dell’azienda. Forse lui contava di dirmelo a quattrocchi, quando ci fossimo incontrati giù. Ad ogni modo non era corretto nei miei confronti. Cosa fai? Me lo dici quando non posso più tirarmi indietro? Il magone cresceva.
Sentii uno scalpiccìo di passi veloci che mi stavano raggiungendo. Gianni si affiancò a me e mi diede una pacca sulla schiena, mentre mi superava.
“Coraggio! Ce la puoi fare.” mi disse, proseguendo la salita.
Mi fermai un attimo perplesso, poi ripresi faticosamente ad avanzare. Di nuovo dovetti fermarmi davanti alla porta dell’ufficio per ricacciare indietro il groppo alla gola.
Entrai. Gianni aveva appena salutato le due segretarie e si stava dirigendo verso la sala disegni. Chiara era seduta aggrappata al bordo della scrivania, quasi avesse paura di cadere, mentre Franca stava ridendo rivolta verso di lei. Evidentemente la buriana del giorno prima era passata. Non per me che attraversai l’atrio a testa bassa accennando ad un buongiorno poco convinto.
Chiara non mi stava guardando, ma Franca mi fermò subito.
“Ecco la persona giusta per dirimere la questione!” disse.
“Quale questione?” chiesi io, senza nessun entusiasmo. Volevo solo andare a richiudermi in laboratorio.
Franca mi invitò ad avvicinarmi.
“Vieni qui.”
“Franca! Per favore…” si lamentò Chiara.
“Tu che sei un artista e hai gusto, abbiamo bisogno della tua consulenza.” disse Franca senza badarle.
Mi avvicinai titubante. Aveva l’aria della solita presa in giro, ma io quel giorno ero disarmato.
“Secondo te” continuò “Chiara starebbe bene in minigonna?”
Chiara in minigonna sarebbe stato un evento epocale. Lei di solito indossava solo gonne appena sopra al ginocchio e, poche volte, quelle tipiche gonne lunghe e scampanate da figlia dei fiori. Indossava volentieri i pantaloni e solo saltuariamente portava i jeans. A memoria mia non l’avevo mai vista indossare una minigonna.
“Non saprei” dissi perplesso.
“Secondo me, sì.” aggiunsi poco convinto .
Franca si rivolse in modo spiccio all’amica, invitandola col gesto della mano ad alzarsi: “Su, fatti vedere!”
“Ma non ci penso proprio.” protestò Chiara “Non sono mica un fenomeno da baraccone!”
“Ma quale fenomeno! Dai, non fare la ritrosa.” insistette Franca.
“Ma perché, hai la minigonna oggi?” chiesi stupito.
“Certo che ce l’ha. Solo che si vergogna a mostrare le gambe”
“Non mi vergogno a mostrare le gambe!”
“E allora tirati fuori da lì e fatti vedere!”
Chiara sbuffò e si decise ad alzarsi dalla poltroncina. Fece due passi indietro e si girò verso di me con le mani dietro la schiena. Fece una veloce piroetta, accennò un inchino e tornò velocemente a sedersi.
“Contenti ora?” chiese.
Franca rise della mia espressione stupita.
“È rimasto a bocca aperta!”
Era vero. La richiusi di scatto.
“Accidenti.” dissi convinto. “Sei un’altra persona. Dovresti metterla più spesso.”
“Vero che le dona?” chiese Franca.
“Va bene, va bene. Ora andate a lavorare tutti e due. Lo spettacolo è finito.” replicò Chiara annoiata.
Piegai gli angoli della bocca in segno di apprezzamento.
“Non è giusto.” dissi “Adesso che me ne devo andare in missione tu ti presenti in questo modo.”
Chiara accennò un sorriso e abbassò lo sguardo. Feci per allontanarmi, ma lei mi fermò allungando un braccio sopra la scrivania col palmo della mano all’insù, come a chiedere la carità.
“Devo pagare il biglietto?” chiesi con finto stupore.
Franca rise: “È giusto che tu paghi per lo spettacolo.”
“No, no.” le disse Chiara “È che mi deve consegnare una cosa.”
“Non fare il finto tonto.” aggiunse poi, rivolta a me, con una smorfietta.
“Non ce l’ho.” dissi asciutto.
Il suo sorriso si spense e ritirò lentamente la mano.
“Te l’ho detto che non aveva più importanza.” continuai.
“Non sei di parola.” borbottò, cominciando a mettere in ordine la scrivania.
Mi sentii punto sul vivo e i miei nervi ricominciarono subito a tendersi.
“Ah, io! Io non sarei di parola!”
“Sì, tu.”
“Tu invece sei di parola.”
“Infatti. Io sono di parola.” disse in tono di sfida, guardandomi dritto negli occhi e scandendo le sillabe.
“Ehi, ehi. Che sta succedendo lì?” chiese Franca dalla sua scrivania.
Deglutii. “Niente. Una cosa senza importanza, ormai.” dissi incamminandomi lungo il corridoio.
Entrai in laboratorio e mi chiusi violentemente la porta alle spalle. Ero tiratissimo. Mancava poco e mi sarei messo a piangere davvero.
Cercai di distrarmi buttandomi subito sul lavoro. Dovevo finirlo in serata, altrimenti mi potevo scordare di andare a casa.
Non capivo perché ce l’avessi tanto con Chiara. In fondo ero disposto a perdonare Michele per uno sgarbo (a detta di Massi) ben più grave che non quello della dimenticanza di battermi una stupida lettera.
Chiara con la minigonna. E che minigonna, del tipo svasato che arriva a mezza coscia. Non era esattamente una minigonna, era invece un mini abito che le esaltava anche la figura, rendendola più snella di quanto fosse in realtà, oltre a mettere in mostra due discrete gambe tornite, a dispetto della leggera curvatura che le caratterizzava. In fondo avevo visto gambe ben peggiori e Chiara in minigonna, dovetti ammettere, non era affatto malaccio.
Chiara con la minigonna.
Chiara con un bel culetto.
Chiara con gli occhi blu.
Chiara che cominciavo a trovare troppo interessante, proprio l’ultimo giorno della mia permanenza in ufficio.
Mi sentii di perdonarla subito senza esitazioni. Al diavolo quella pizza, era andata così. Amen. Con questo spirito rinnovato mi misi a lavorare, ma il groppo alla gola restava sempre lì.
Fanculo.
A metà mattinata la porta si spalancò ed entrò Gianni, senza tanti complimenti. Con la sua solita aria un po’ strafottente e l’eterna sigaretta penzolante dalle labbra, cominciò ad ispezionare le varie parti del laboratorio.
“Così, questo è il tuo ufficio. Non è un granché, direi.”
“Ormai non lo è più.” risposi mogio.
Prese una sedia e venne a vicino a me, incuriosito dal mio movimento di scuotimento della provetta, sedendovi sopra a cavallo.
“Che cazzo stai facendo?” chiese sorpreso.
“Sto facendo le prove di durezza dell’acqua.”
“E tutto il giorno è così?”
“Sì.”
“Che palle però…”
“Puoi dirlo forte.”
“Meglio Reggio Calabria a questo punto.”
“L’hai saputo, eh?”
“La Calabria è molto bella. Ti invidio.”
“Se non fosse per qualche piccolo particolare.”
“Tipo?”
“Beh, le donne tutte vestite di nero, per dirne una.”
“E questa stronzata come ti è venuta in mente?”
Mi strinsi nelle spalle. “Dicono.”
“Ma stai a scherzare.”
“Perché? Non è vero?”
“Non è vero, no.”
“Nemmeno che ragazzi e ragazze fanno il passeggio su due marciapiedi distinti?”
“Ma che cazzo dici?”
“Me lo ha detto Michele. Lui è laggiù, lo saprà bene.”
Scoppiò a ridere. “Mi sa che Michele ti ha preso un po’ per il culo.”
Lo guardai dubbioso.
“Le ragazze di Calabria” continuò “sono le più belle d’Italia e vestono in jeans e minigonna come qui. E non si fanno certo scrupoli coi ragazzi, altro che marciapiedi separati. Le donne calabresi sono molto più toste dei maschi. E guarda che i calabresi sono tosti forte, ma con le loro donne devono stare attenti.”
Si rialzò dalla sedia scuotendo la testa.
“Lo sai che io sono di probabili origini calabresi?”
“Davvero?”
“Eh, si. Basta vedere il mio cognome. Dovrei avere anche un po’ di sangue blu nelle vene.”
“Hai parenti giù?” chiesi speranzoso. Arrivare là e magari trovare gente già ben disposta nei miei confronti mi avrebbe tranquillizzato un po’.
“No, il nostro ramo si è staccato secoli fa. Ormai siamo romani al cento per cento.” rispose avviandosi verso la porta.
Quando fu sulla soglia si girò un attimo e disse: “Ero venuto a dirti che Chiara ti vuole.”
“In che senso?” chiesi io sorpreso.
Mi fissò perplesso.
“De-vi an-da-re da lei.” rispose, come fossi un bambino ritardato.
Uscì bofonchiando: “In che senso, dice. Come sarebbe in che senso?…”
Terminai l’analisi che avevo in corso e poi mi avviai verso la postazione di Chiara. Non mi dispiaceva dare un’altra occhiata a quella minigonna.
Quando fui vicino alla sua scrivania Chiara mi gettò uno sguardo distratto. Stava infilando delle carte in una busta. Si fermò e mi porse un foglietto giallino.
“Vai in amministrazione e fatti dare i soldi.” disse spiccia.
“Agli ordini.” replicai con tono annoiato, mentre prendevo il foglietto. Mi stava preparando la missione e ritornò subito ad occuparsi della busta. Ristetti un attimo a guardarle il collo bianco che si vedeva a tratti tra i capelli neri. A differenza della maggior parte delle ragazze more, Chiara aveva una pelle perlacea, molto delicata. Questa era una cosa che mi piaceva in generale, ma era la prima volta che la notavo su di lei.
Sentendosi osservata alzò la testa e mi fissò. I suoi occhi dritti sui miei, come ultimamente tendeva a fare sempre più spesso.
“Allora?” chiese.
“Stavo pensando una cosa che ti riguarda.”
“Voglio saperla anch’io!” si intromise Franca.
“La dico dopo, quando torno dall’amministrazione.”
“Non aver fretta.” disse Chiara con un tono di leggero sarcasmo.
Feci quei pochi passi che mi separavano dalla porta dell’ufficio di Ratti e me la chiusi delicatamente alle spalle.
Quando uscii mi era tornato il magone. Quei soldi che mi erano stati dati, le firme sulle pratiche burocratiche e i discorsi melliflui di Ratti, sempre sottolineati da quel viscido strofinare di mani, mi avevano reso ormai pienamente cosciente dell’ineluttabilità del mio destino prossimo, che per qualche ragione sfuggente non riuscivo a metabolizzare.
Quasi in trance mi ritrovai di nuovo di fronte a Chiara che mi porse con malagrazia la busta della missione, dando così un ulteriore colpo al mio morale.
Cercai di cogliere nella sua espressione una qualche forma di solidarietà inespressa, o di tristezza per la mia partenza. Qualcosa che mi confermasse in ciò che prima avevo sempre trattato come un fastidio e che invece ora sentivo di desiderare. Che lei provasse veramente qualcosa per me.
Avevo un disperato bisogno in quel momento di qualcuno che mi fosse vicino. Qualcuno che non mi facesse sentire così solo. Così ‘sacrificabile’. E Chiara era l’unica che avrebbe potuto riuscirci. Non Franca, non Gianni, non Massi e neppure Michele, che pure mi avrebbe sicuramente aiutato ad ambientarmi. E nemmeno, mi accorsi con stupore, la mia famiglia che avrei rivisto il giorno successivo.
Però sul viso di Chiara non lessi nulla di diverso dal solito. Mi guardava quasi indifferente mentre rigiravo la busta tra le mani.
Abbassai la testa e feci per tornare in laboratorio, ma lei mi chiese: “Non avevi qualcosa da dirmi?”
Con la coda dell’occhio vidi Franca alzare la testa, attenta.
Mi sforzai di tirare fuori la residua ironia che mi aveva indotto a fare quella osservazione. Con un sorriso tirato, mostrandole la busta, dissi: “Questa è la prova che sei tu che non sei di parola.”
“Ah sì? Che prova sarebbe?” chiese ironica.
“Ieri hai detto che non me l’avresti preparata la missione.”
“Ha detto così?” chiese Franca
Chiara tornò ad occuparsi della sua macchina da scrivere: “Sono troppo buona. Me lo dice sempre anche la mamma.”
“E che altro dice la tua mamma?” le chiese Franca.
“Che Bruno è una persona su cui non si può fare affidamento.”
“Ah, ha.” feci sarcastico.
“Ah, ha.” rispose lei con lo stesso tono, mostrandomi la lingua.
“Guarda che la giornata non è ancora finita.” dissi con tono di sfida “Io posso ancora dimostrare di essere di parola. Tu no.”
Lei si girò lentamente a guardarmi. L’espressione del gatto (con gli occhi blu) che ha appena preso il topo: “Vogliamo fare una scommessa?”
“Sei proprio sicura?” chiesi sardonico
“Sicurissima, io! E tu?” replicò con aria di sfida. Stava chiaramente cercando di provocarmi.
“Io, se voglio, vado di là in laboratorio e torno con la lettera in cinque minuti.”
“E io te la batto in altri cinque!”
“Ma non cambierebbe nulla. È quella di ieri che manca all’appello.”
“Tu intanto portamela, poi di quella di ieri ne parliamo.”
“Quanto mi piacete quando litigate voi due.” disse Franca estasiata.
“Ma non stiamo litigando!” replicammo entrambi all’unisono.
Ci fu un attimo di silenzio e poi scoppiammo tutti a ridere. Più loro due a dire il vero. Il mio fu solo un riflesso condizionato che, anzi, peggiorò ulteriormente il mio stato d’animo.
Chiara mi fece segno con la mano oscillante a coltello di andarmene. “Vai a lavorare che è meglio.” disse ancora ridendo.
“Controlla l’orologio! Fra cinque minuti torno.” risposi punto sul vivo. E senza aspettare altro mi diressi velocemente al laboratorio.
Andai diritto alla mia scrivania, presi il primo foglio bianco a portata di mano e comiciai a scrivere nervosamente. Non ho mai avuto una bella calligrafia, ma quella che misi in mostra in quell’occasione era proprio orrenda.
Non mi importava, voleva sfidarmi? E io accettavo la sfida.
Non scrissi più di tanto, anche perché il livello delle acque del mio umore aveva raggiunto ormai il bordo inferiore delle mie ciglia e qualche goccia cominciava a traboccare, scendendo insidiosa a bagnarmi i peli della barba. Mi rendevo conto di stare giocando sporco, o almeno era quella la mia intenzione.
Mi asciugai ruvidamente gli occhi con la manica della maglia.
“Chissenefrega.” pensai. Piegai sgraziatamente il foglio in quattro parti e andai subito a consegnarlo così come era, senza neppure infilarlo in una busta.
Quando fui di nuovo davanti a lei, Chiara era già impegnata nella battitura di un documento che il grande capo le aveva appena consegnato. Lui era ancora lì e quando mi vide arrivare mi chiese a che punto fossi con le analisi. Lo rassicurai al riguardo, un po’ balbettando, e lui rientrò nel suo ufficio senza chiedermi altro.
Poggiai con forza il foglio sul ripiano della scrivania, ma ci tenni la mano sopra. Chiara cercò delicatamente di sfilarmelo da sotto, ma io lo trattenni.
Con aria mesta mi chiese: “Vuoi contare i cinque minuti proprio da ora?”
Le feci un sorriso di comprensione: “No, vedo che hai da fare. Hai tutto il tempo. Ma voglio proprio vedere se questa la batti.”
Lasciai il foglio. Chiara lo mise sotto al documento su cui stava lavorando.
“Hai pianto?” mi domandò.
Rimasi di sasso. “No, perché me lo chiedi?”
“Hai gli occhi rossi.”
Feci una smorfia. “Me li sarò toccati con le mani sporche.”
“Se hai bisogno di qualcuno che ti consoli…” intervenne Franca.
“Si, lo so. Devo cercare da un’altra parte.” replicai girando sui tacchi. Ritornai alle mie provette mentre loro due ridacchiavano.
Quando fui di nuovo solo, in mezzo alle bottiglie di campioni d’acqua da analizzare, fui preso dallo sconforto più totale. Una missione che fino ad una settimana prima avrei salutato con il più grande entusiasmo, adesso, proprio in quel momento, la vivevo come una grande ingiustizia.
Sempre più affranto ricominciai le analisi interrotte, ma il lavoro procedeva a rilento e certamente non lo avrei terminato per la sera con quel ritmo.
Ero in una specie di trance. Eseguivo meccanicamente le operazioni di analisi, ma la mia mente era ferma. Quasi in attesa che arrivasse finalmente il temporale che mi avrebbe buttato fuori le tonnellate di acqua represse, che attendevano di sfogarsi.
E il temporale arrivò.
Mi ero appena seduto alla scrivania per riempire le schede dei campioni che la porta si aprì ed entrò Chiara. Fece incerta i pochi passi che ci separavano e si fermò dinnanzi a me in tutto lo splendore della sua minigonna. Il suo piccolo seno si alzava ed abbassava al ritmo di un respiro leggermente affannato. In una mano teneva una busta, mentre nell’altra stringeva il mio foglio spiegazzato.
Non furono queste però le cose che mi colpirono subito. Fu il suo viso.
Gli occhi azzurri, incorniciati dai lisci capelli neri, erano sottolineati da un vistoso rossore delle guance che li faceva apparire ancora più splendenti di quanto già non fossero per loro natura.
Rimasi stupefatto a guardare quegli straordinari accostamenti cromatici. Erano i colori del quadro che avevo sognato. E lei, in quel momento, era… bellissima!
Guardava nella mia direzione, però ebbi l’impressione che non guardasse me, ma piuttosto dentro se stessa.
Io ero senza parole e senza fiato e rimanemmo in silenzio per qualche attimo. Alla fine fu lei, con voce esile, a rompere il silenzio.
Poggiò la busta sul ripiano della scrivania e con la punta delle dita la spinse nella mia direzione.
“Questa è la tua lettera di ieri.” disse.
Cercai di scuotermi dal mio torpore e mi sforzai di togliere lo sguardo dal suo viso e portarlo sulla busta.
Mossi la testa. Non capivo. La aprii meccanicamente e cominciai ad estrarre il foglio che c’era dentro.
“Come vedi io sono di parola. Te l’ho battuta come volevi.” aggiunse.
Aprii il foglio piegato. Era effettivamente la mia vecchia lettera, perfettamente battuta a macchina, con tutti i rientri a posto e allineati.
“Come hai fatto se l’originale ce l’ho io?” chiesi stupito continuando a fissare il foglio.
La sentii sospirare. “Era già pronta ieri sera.” disse.
Scorsi la lettera fino alle tre risposte. Una “x” era centrata sulla prima casella:
[x] Sì, sono entusiasta
“Ma come, hai risposto sì?” chiesi “E perché non me l’hai consegnata ieri?”
“Perché ieri sera non potevo proprio uscire.”
“Beh, se avevi già un impegno allora potevi rispondere no.” dissi stringendomi nelle spalle.
Tornai a guardarla in viso. Il rossore era ancora tutto lì e lei era di una bellezza che non mi sarei aspettato e che non avevo mai colto.
“Se avessi risposto no, tu non me lo avresti più chiesto.”
Era una constatazione a cui non potei sottrarmi.
“Eh già.” annuii. “Non l’avrei fatto.”
“E soprattutto…” si interruppe per rivolgere lo sguardo al foglio che teneva ancora in mano. Lo alzò, stretto nel piccolo pugno dalle nocche bianche: “… non avresti scritto questo.”
Tornò a puntare i suoi occhi sui miei. Io li distolsi immediatamente e non risposi. Ero troppo impegnato a cercare di controllare il mio di rossore, anche se le orecchie certamente in quel momento mi stavano tradendo.
Appoggiò con delicatezza il foglio stropicciato sulla scrivania.
“Questo però, se non ti dispiace, non te lo batto a macchina. Non lo posso fare e… non lo voglio fare.”
Lo disse quasi in un sussurro calcando però sull’ultima frase.
Sentii un sordo crack nel petto. La diga aveva ceduto ed avevo urgente bisogno che lei si allontanasse prima dell’arrivo imminente dell’ondata di piena.
Chinai la testa ed annuii avvilito. Avrei voluto spiegarmi, giustificarmi, confidarmi, ma il mio stato d’animo era ormai fuori controllo e desideravo solo che lei uscisse il prima possibile.
Lei rimase in attesa di una mia reazione, sorpresa dalla mia apatia, ma Franca la chiamò ad alta voce dal fondo del corridoio e dovette allontanarsi.
“Ne riparliamo.” disse.
Quando fu quasi sulla porta si girò nuovamente verso di me.
“Bruno, ti chiedo una cosa. Non prendermi in giro.”
Si allontanò lungo il corridoio mentre io lasciavo ormai scorrere senza pudore le lacrime, a sciogliere finalmente quella tensione non più sopportabile.
Dapprima silenzioso, il mio pianto si trasformò presto in grossi singulti che cercavo invano di smorzare per non farmi udire attraverso la porta rimasta aperta. Non volevo piangere, ma quel sì alla pizza aveva rotto un equilibrio troppo instabile e nel momento sbagliato. Era il momento in cui io avrei dovuto prendere di petto la situazione, ma era stata la situazione a prendere di petto me.
Con gli occhi annebbiati dalle lacrime presi il foglio e cercai di stenderlo sul piano della scrivania stirandolo col palmo delle mani. Riuscivo faticosamente ad intravederne appena la forma, ciò che vi avevo scritto mi appariva come una serie di macchie nerastre mischiate a delle striature di rosso.
Non avevo bisogno di leggere il testo, lo sapevo bene quello che avevo scritto: “Vuoi diventare la mia ragazza?”.
Troppo tardi lo avevo scritto quel foglietto. Una pizza andava bene, ma oltre “non lo voleva fare”.
Quello che non riuscivo a interpretare erano i segni rossi che attraversavano tutto il foglio.
Come un bambino piangente viene distratto da altre cose che lo incuriosiscono, così io fui distratto e incuriosito da quella macchia.
Tirai su con il naso mentre con il dorso delle mani cercai di asciugarmi gli occhi annacquati. Nello stesso tempo tentai di allontanare gli occhi dal foglio, come fanno i presbiti, dondolandomi sulle gambe posteriori della sedia.
La scrittura prese forma e riuscii a leggere le parole. E prese forma e senso anche lo scarabocchio rosso.
Di traverso a tutto il foglio, ripassato più volte con una matita rossa, vergato a mano e con calligrafia nervosa spiccava un grosso SI.
Rimasi inebetito a fissare quei due caratteri, dimentico della posizione di precario equilibrio in cui mi trovavo. Infatti la sedia mi scivolò di sotto ed io mi trovai rovinosamente per terra, non prima di aver sbattuto la testa sullo spigolo di ferro del bancone dei campioni che stava alle mie spalle. Fu un urto di striscio, ma doloroso, e rimasi per un po’ avvinghiato alla sedia tornando a piangere (un po’ per il dolore e un po’ per completare il pianto interrotto di prima) e ridendo nello stesso tempo.
Una incredibile euforia mi pervase tutto. Il pianto era riuscito a sciogliere la tensione, un attimo prima il mondo mi era caduto addosso ed ora ero di nuovo in piedi (si fa per dire).
Cercai di tirarmi su, incespicando più volte nella sedia dove si era intrappolata una gamba.
Quando fui di nuovo in posizione verticale mi guardai attorno e fissai con aria di sfida quelli che in quel momento mi parvero pochi campioni rimasti da analizzare e che avrei annientato prima di sera.
Però prima dovevo andare da Chiara. La volevo rivedere subito: lei, i suoi occhi azzurri, le sue guance rosse e la sua minigonna nuova. Chiarire il mio atteggiamento incoerente, anche se sospettavo che lei ormai ci avesse fatta l’abitudine.
Mi passai una mano sulla guancia e la sentii bagnata. Andai al lavello e mi sciacquai abbondantemente la faccia e gli occhi. Non potevo competere con le sue bellissime guance rosse mostrando rossi gli occhi.
Mi tornò in mente il quadro del sogno e sorrisi dentro di me per il fatto di averlo cercato addirittura in un museo. Uomo senza immaginazione.
La testa mi pulsava nel punto dove aveva urtato.
Respirai a fondo e attesi che mi si calmasse il battito sordo del cuore. Poi mi lanciai deciso lungo il corridoio.
Chiara, sentendomi arrivare, aveva già alzato lo sguardo e le sue gote non fecero in tempo ad arrossire di nuovo che la vidi sbiancare. Gli occhi si spalancarono in una espressione di raccapriccio e spavento.
“Cosa hai fatto?”
La voce le tremava.
Anche Franca mi guardò ed esclamò: “Oh, Madonna santa!”
Si alzarono di scatto quasi contemporaneamente per correre da me. La poltroncina di Chiara scivolò sulle rotelle fino ad andare a sbattere nello schedario vicino alla finestra. Lei fece veloce il giro della scrivania per venirmi vicino, subito seguita da Franca. Allungò incerta la mano fino a toccarmi il colletto della camicia.
“Sei tutto insanguinato!” disse con apprensione.
Girai la testa di lato per cercare di vedere il punto che indicava. Sentii un prurito dietro l’orecchio e istintivamente allungai un dito per grattarmi. Lo ritirai imbrattato del sangue che dalla nuca stava fluendo copioso lungo il collo.
“Fammi vedere.” disse Franca invitandomi ad abbassare la testa.
“Prendo la cassetta del pronto soccorso.” disse Chiara allontanandosi veloce.
“Bisogna chiamare qualcuno!” disse Franca e si diresse correndo verso la sala disegni, chiamando Gianni ad alta voce.
Chiara tornò tirandosi dietro la sua poltroncina.
“Siediti qui.” disse.
Mi sedetti docile, travolto dagli avvenimenti.
Arrivò Gianni.
“Che ti è successo?”
“Sono scivolato e ho sbattuto la testa sul bancone del laboratorio. Non è stato un colpo forte. Non credevo…”
Cercò di trovare la ferita tra i capelli imbrattati.
“Non si vede niente così. Andiamo in bagno.”
Mi alzai in piedi, ma dovetti restare fermo. Gianni mi guardò fisso negli occhi.
“Stai bene?” chiese.
“Sì.”
“Sei troppo pallido.”
La vista mi si stava abbuiando.
“Credo che sto per svenire.” dissi. La vista del sangue, anche se mio, in genere non mi faceva un bell’effetto.
“Torna a sederti. Ti portiamo con la poltroncina.”
“Aprimi la porta” disse poi rivolto a Franca, che si affrettò a farlo, mentre lui mi spingeva deciso verso il bagno tenendomi la testa all’indietro.
La poltroncina con me sopra non riusciva a passare nella porta stretta, così Gianni mi prese sotto le ascelle e mi tenne dritto fino a che Chiara non ebbe fatto passare la sedia.
Mi fece accomodare davanti al lavabo.
“Bisogna che ti tolga i vestiti, altrimenti te li bagno tutti.”
Sfilarmi la maglia, anch’essa ormai rovinata dal sangue, non fu un’impresa semplice. E, dopo la camicia, anche la canottiera si rivelò inzuppata in una vasta area della schiena.
Gianni mi infilò la testa sotto il rubinetto. Il getto di acqua fredda mi fece subito sentire meglio, mentre lui cercava, con una delicatezza impensabile, di districarmi i capelli dai grumi di sangue. Vidi l’acqua che scivolava roteando nello scarico perdere gradatamente il suo colore rosso vivo per diventare sempre più rosa e infine incolore.
Si fece portare da Chiara un paio di forbicine e con quelle cominciò, con la stessa delicatezza, a tagliarmi dei piccoli ciuffi di capelli.
“È un taglietto da niente.” disse “Deve essersi rotta una piccola vena, ecco perché sanguina tanto. E poi il cuoio capelluto è molto irrorato di sangue.”
Il getto di alcol mi arrivò imprevisto come una bruciante sciabolata. Gemetti.
“Adesso ti farò un po’ male.” mi avvertì.
“Non è che mi sia tanto divertito fin’ora.” bofonchiai cercando di scherzare.
Aveva ragione. Quando mi appoggiò sulla ferita la matita emostatica fu come mi avesse conficcato un chiodo. Strinsi i denti fino a quando non tolse la mano. La riappoggiò un altro paio di volte, poi mi mise una garza che fissò con un grosso cerotto.
“Quando starai meglio dovrai trovarti un barbiere molto bravo per rimediare ai danni che ti ho fatto.” mi disse tenendomi la testa bassa. “Però almeno non soffrirai troppo a toglierti il cerotto.”
“Come facciamo coi suoi vestiti?” chiese Chiara a Gianni.
Dalla mia scomoda posizione dissi che sotto, da Massi, avevo la mia valigia coi vecchi ricambi.
Gianni chiese a Franca di chiamare Massi dalla finestra del laboratorio, che dava sul cortile interno sottostante, per fargli portar su la valigia.
“Ti senti di rialzare la testa?” mi chiese
“Si, sto bene.”
“Però resta seduto.”
Alzai gli occhi su Chiara che mi stava guardando con una espressione preoccupata.
“Non fai in tempo a trovarti un ragazzo che rimani subito vedova.” le dissi sottovoce con un sorriso.
Lei mi fissò seria, poi allungò titubante la mano verso il mio viso ad accarezzarmi con delicatezza la barba.
Gianni, mi diede un leggero schiaffetto sulla spalla nuda. “Bene campione. La mia parte l’ho fatta, torno al lavoro.”
“Grazie Gianni.” dissi.
Anche Chiara si sentì in dovere di ringraziarlo e lui la guardò un attimo sconcertato, prima di uscire dal bagno.
Quando arrivò Massi con la mia valigia, Chiara disse che anche lei doveva tornare a lavorare e che ormai non era più di utilità. Uscì trascinandosi dietro la sua poltroncina.
Avrei voluto trattenerla, ma la presenza di Massi mi intimidì.
Quando mi fui rivestito coi vecchi abiti dei giorni precedenti, Massi si offrì di riportare giù la valigia e di occuparsi di fare in modo che i capi insanguinati non macchiassero anche il resto.
Per ultimo uscii infine anch’io. Come inizio di un rapporto era certamente uno dei più originali.
Ormai si era fatta l’ora di pranzo e gli impiegati cominciarono a fluire nell’atrio. L’efficienza di Gianni aveva evitato che l’incidente provocasse troppa curiosità in ufficio, così non se ne era accorto praticamente nessuno.
Il solo Ratti uscendo notò nel pavimento dell’atrio alcune gocce di sangue. Quando gli fu detto ciò che mi era successo si limitò a scuotere la testa e a chiedere a Chiara di dare una pulita.
Mi offrii di farlo io e andai in bagno ad inumidire un po’ di carta.
Quando ritornai Franca si stava mettendo il soprabito per uscire, mentre Gianni l’aiutava.
“Vieni Chiara?” chiese rivolta all’amica.
Chiara stava ancora alla macchina da scrivere.
“Sono troppo indietro col lavoro. Rimango qui anche oggi.”
“Allora ti porto il solito panino quando rientriamo.”
“No.” disse Chiara interrompendo per un attimo la battitura. “Me lo porta Bruno, ci siamo già accordati.”
“Ah, va bene.” disse Franca sorpresa, gettandomi un’occhiata furbetta, mentre io me ne stavo impalato in mezzo all’atrio con il malloppo di carta bagnata in una mano e un sorriso ebete stampato in faccia.
Prese sottobraccio Gianni e avviandosi all’uscita disse quasi a se stessa, ma guardando me: “Quando torno facciamo i conti.”
Appena la porta si fu chiusa alle loro spalle Chiara interruppe immediatamente la battitura. Si alzò e dopo aver fatto il giro della scrivania mi corse vicino.
Ci fissammo negli occhi. Mi piaceva davvero quella ragazza. I suoi occhi innanzi tutto, ma anche il suo naso affilato, che non avevo mai apprezzato fino a quel momento, le sue labbra sottili, gli zigomi alti, i capelli. Tutto era al posto giusto, non si poteva immaginare un naso diverso o diversa una qualunque altra parte. Il suo viso era un equilibrio perfetto di piccole imprecisioni. Una minima modifica e sarebbe crollato tutto. Andava bene in quel modo, non ce n’era un altro possibile.
Restammo uno di fronte all’altra, timorosi di toccarci.
“Come ti senti?” chiese.
“Sto benissimo!” risposi sorridendo “Era tutta scena.”
“Non sai che spavento mi sono presa.”
Ci sciogliemmo in un abbraccio, impensabile solo poche ore prima. Sentii il calore del suo corpo attraverso gli abiti e fu una sensazione bellissima che non ricordavo di avere mai provato.
In quel momento si aprì la porta dell’ufficio del grande capo. Io mi buttai giù a strofinare le macchie di sangue ormai rappreso, mentre Chiara faceva un veloce dietrofront per tornare alla sua scrivania. Lui la seguì ignorandomi e cominciarono a parlottare del lavoro.
Andai in bagno a buttare la carta sporca, poi mi avvicinai con circospezione ai due.
“Scusate.” mi intromisi “Chiara, io vado giù a prendere i panini. Tu come lo vuoi?”
“Al formaggio va bene per me.” rispose compunta.
“Con una Coca.” aggiunse.
“Desidera qualcosa anche lei? Vado giù in piazza…” chiesi per formalità al capo.
“No, la ringrazio. Vada pure. Non faccia aspettare la signorina, ché avrà certamente appetito a quest’ora.”
Quando mi girai per uscire mi chiese: “Che cosa ha fatto alla testa?”
“Ho sbattuto contro uno spigolo.” risposi
“Però non ho danneggiato niente.” aggiunsi per fare dello spirito. Com’era lontana l’angoscia della mattina.
“Meglio così.” disse lui “Altrimenti il ragionier Ratti le avrebbe fatto una trattenuta sullo stipendio.”
Fu una delle poche volte che lo vidi sorridere. Sembrava quasi umano.
Feci di volata il tragitto ufficio-mesticheria e ritorno. Gli scalini quella volta li feci a tre a tre fino a piombare sulla porta.
Chiara sobbalzò sulla sedia al mio ingresso e si mise a ridere.
“Vai piano. Non t’ammazzare, oggi mi hai già spaventata a sufficienza.”
“Oggi non m’ammazza più nessuno.” dissi ansimando e porgendole il suo panino.
Presi la poltroncina di Franca e mi sedetti vicino a lei, che aveva già dato il primo morso.
Cominciai a mangiare anch’io.
Non mi ero mai reso conto, fino a quel giorno, quanto in realtà fosse trafficato quell’atrio durante la pausa pranzo. Chiara mi confermò che soprattutto i dirigenti ne approfittavano per sgranchirsi le gambe e venivano in continuazione a romperle le scatole se la vedevano al suo posto.
Mi confessò che qualche volta, per evitarli, quando io non c’ero, andava a mangiare in laboratorio e così ne approfittava per curiosare tra le mie cose o ascoltare la mia musica.
Feci la faccia offesa e suggerii di andarci insieme stavolta, ma lei non volle perché il capo quel giorno la teneva proprio sotto pressione e poteva sbucare fuori ad ogni momento, come aveva già fatto.
Approfittando di un attimo di pausa nel via vai, avvicinai il mio viso al suo. Lei si voltò verso di me con gesto naturale e ci demmo il nostro primo bacio. Il suo alito sapeva di formaggio.
Fu un bacio fugace, dato a mezza bocca, ma fu sufficiente a farci arrossire entrambi. Tornammo immediatamente ad addentare i nostri rispettivi panini proprio mentre la porta del grande capo si apriva un’altra volta.
Stavolta non cercava nessuno, solo il bagno.
All’improvviso l’atmosfera si fece triste. Cominciavamo a renderci conto che le cose non sarebbero state facili. Lei era impegnatissima ed io dovevo assolutamente finire il lavoro prima di sera. Dopo di che ci aspettava una lunga separazione.
La pausa pranzo sarebbe presto terminata e dovevamo cercare di dare un senso a tutta questa storia.
Ci mettemmo a consultare gli orari dei treni e la cosa ci rattristò ulteriormente. Per essere a Reggio Calabria il lunedi mattina dovevo partire da Ravenna nel pomeriggio di domenica. Questo comportava che andassi a casa il prima possibile per dar tempo a mia madre di lavarmi e stirarmi le cose e preparare il tutto per un lungo soggiorno lontano da casa.
Alla fine, con nostro grande sconforto, rimase una sola scelta praticabile. Dalla stazione Termini partiva un treno alle cinque e mezza di quella sera. Con quello sarei arrivato a casa verso mezzanotte. Solo prendere quello successivo, come già sapevo, mi avrebbe costretto a passare la notte nella sala di attesa di Bologna per poi arrivare a casa alle sei del mattino dopo.
Per essere alla stazione Termini per quell’ora avrei dovuto uscire prima del solito, e su questo non c’erano problemi con l’azienda, vista la particolarità della situazione, ma avrei dovuto terminare le analisi e qui le cose erano molto complicate.
Soprattutto non avremmo potuto passare la serata assieme.
Cercammo allora di studiare un modo per far pesare il meno possibile la lontananza di questi quattro mesi (avrei lavorato come un matto, anche la domenica, perché non fossero stati di più).
Quando si andava in missione l’orario di lavoro giornaliero era molto elastico, ma la settimana lavorativa era di sei giorni. Concordammo che avrei però cercato di scappare da Reggio almeno un fine settimana intero, per tornare a Roma e incontrarci. E poi ci saremmo sentiti al telefono tutti i giorni.
La situazione era comunque poco gestibile ed eravamo sempre più immusoniti mano a mano che vedevamo restringersi i margini di manovra.
Poi mi ricordai di Michele, della moglie di Michele per essere precisi. Lei non aveva voluto seguire il marito in missione, Chiara l’avrebbe fatto? Sarebbe stata disposta a venire a Reggio Calabria per passare le ferie?
Fu entusiasta dell’idea. I suoi genitori certamente non l’avrebbero lasciata andare da sola, ma c’era una concreta possibilità che potesse venire accompagnata dagli zii. E gli zii erano una coppia molto giovane che lei avrebbe cercato di convincere; con buone possibilità di riuscita visto che loro amavano viaggiare.
Ci facemmo prendere dall’euforia, felici di questa prospettiva. Un paio di settimane durante le quali saremmo stati sempre insieme. E soli, perché Chiara non dubitava di convincere gli zii a chiudere gli occhi, magari dicendo loro proprio la verità, sicura della loro complicità.
Quando tutti gli impiegati furono rientrati da pranzo io andai a chiudermi in laboratorio e mi buttai su un lavoro che oggettivamente non avrei potuto concludere. Decisi perciò di ricorrere agli estremi rimedi.
Ormai Foggia la conoscevo come le mie tasche. Le analisi che facevo erano periodiche, per valutare le variazione della falda acquifera, e sapevo bene quindi che rapporti c’erano tra un punto di prelievo e quello vicino. Su questa base arrivai a fare una analisi vera ogni tre o quattro. Le altre le inventai semplicemente.
Ogni tanto Chiara passava per un saluto. Infilava la testa corvina nel vano della porta e mi mandava un bacio e poi spariva senza entrare.
Solo una volta entrò di corsa, mi venne alle spalle e mi bisbigliò un “Ti amo.” dietro le orecchie, prima di scappare di nuovo. I capelli della nuca mi si rizzarono ed un brivido mi scivolò giù lungo la schiena. Non potei non ricordarmi del sogno di qualche giorno prima.
Alle quattro del pomeriggio il lavoro era terminato.
Misi a posto tutta la documentazione in una cartella e la portai a Chiara perché la consegnasse la mattina dopo al grande capo, visto che nel frattempo lui era andato via.
La appoggiai sulla sua scrivania.
“Finito.” dissi.
Lei alzò il viso sorridente verso di me, poi si rattristò subito.
“Allora vai?” chiese sommessamente.
Sospirai. “Sì, è meglio che mi incammini.”
Lei si morse il labbro superiore e non disse nulla.
Cercai di superare il momento critico rivolgendomi a Franca con enfasi: “Beh, Franca. Ti saluto allora. Mi sa che per un po’ non ci vedremo più.”
Franca si alzò e mi venne ad abbracciare, baciandomi sulle guance. “Fai buon viaggio” mi disse “e non guardare le ragazze calabresi. Le romane sono meglio.”
“Lo so.” le risposi convinto.
Anche Chiara si alzò e mi venne vicino, accompagnandomi alla porta. Mi sfiorò la mano con la sua, quasi di nascosto, poi girò il viso verso Franca che ci stava osservando. Franca fece un impercettibile cenno di assenso col capo e Chiara mi strinse forte la mano e mi trascinò fuori dall’ufficio.
Scendemmo lentamente le scale in silenzio. Usciti in strada svoltammo l’angolo con la via Flaminia e ci dirigemmo verso il cancello del parco macchine per ritirare la mia roba.
Appena ci vide, Massi salutò Chiara: “Ciao bella! Finalmente sei venuta a trovarmi.”
“È venuta ad accompagnare me.” mi intromisi sornione.
Gli poggiai l’indice contro il petto: “Giusto per farti capire se sono sacrificabile o meno.”
Ci guardò perplesso, accarezzandosi il pizzetto.
“Non devi farlo capire a me. Dillo al tuo amico Michele.”
Poi si rivolse a Chiara: “Tu Chiara cosa ne pensi?”
Lei si strinse nelle spalle: “Non ho capito di cosa state parlando.”
“Non importa.” intervenni, caricandomi la chitarra a tracolla e tirando su la valigia, “È ora che vada.”
Salutai calorosamente Massi e ci incamminammo verso la piazzola di sosta dei bus di Piazzale Flaminio mentre lui ci gridava dietro: “Siete davvero una bella coppia!”.
Restammo in attesa e in silenzio sulla piazzola, ognuno perso nei propri pensieri. Sbirciai verso Chiara e le vidi brillare una lacrima sul bordo esterno dell’occhio.
“Il tuo numero sta arrivando.” disse indicando col mento la direzione.
Non guardai da quella parte. La abbracciai e ci baciammo. Fu un bacio vero, questa volta. Un bacio profondo e sentito. Un bacio naturale. Un bacio.
Quando lei sentì lo sbuffo delle porte del bus che si aprivano vicino a noi, mi respinse delicatamente premendo le sue mani sul mio petto.
Aveva gli occhi lucidi. Anche i miei non erano da meno.
“Stai piangendo.” le dissi con un sorriso tirato.
“Ma, no.”
“Hai gli occhi rossi.”
“Me li sarò toccati con le mani sporche.”
Mi spinse verso l’entrata dell’autobus: “Vai.”
Uno sconosciuto mi aiutò a far salire la pesante valigia.
Mentre le porte si chiudevano con un soffio attutito, mi girai a guardarla. Piccola e deliziosa figurina in minigonna che diventava via via più piccola finché, quando l’autobus infilò il Muro Torto, non sparì alla mia vista.
Epilogo
Non rividi più Chiara.
Io rimasi intrappolato a Reggio Calabria dallo scoppio della rivolta e lei non poté poi raggiungermi per passare insieme le vacanze.
Rimanemmo per un po’ in contatto telefonico, ma non avevamo sostanzialmente molte cose in comune di cui parlare e le nostre telefonate diradarono lentamente, fino a cessare del tutto.
Quando, dopo otto mesi, finalmente rientrai a Roma, Chiara si era licenziata e nessuno, nemmeno Franca, sapeva che fine avesse fatto.
Io rimasi ancora un anno con quell’azienda, sempre sballottato in giro per la penisola, poi mi licenziai a mia volta per tornare a Ravenna.
La lettera di dimissioni me la battei personalmente su una Olivetti portatile che mi aveva lasciato Michele nel passaggio di consegne a Reggio e di cui l’azienda non mi chiese mai conto.
FINE
Mi piace questo ultimo capitolo hai espresso molto bene l’infatuazione che il tuo protagonista ha provato per Chiara e che è svanita allontanandola . Rileggerò con calma l’intero racconto Ciao a presto
Ho bisogno di tempo per leggero!
L ho letto….uhm…devo rileggerlo.
Mi fai venire l’ansia 😦
Non devi.per fare una critica sensata devo rileggerlo.E’ questione di serietà’!
Ma come?! Per una volta che ti è entrata una vocale accentata, mi ci metti anche l’apostrofo?! 😦
L iPad e’ una schifezza grammaticale….scusa.
Sai cos e’ la storia mi annoia.Tu hai fatto i compiti a casa scrivi sciolto grammatica perfetta punti e virgola ma mi annoiò.e mi viene il nervoso .Ma tu hai fatto cio ‘ che dovevi. Ecco .io uno come Bruno lo prenderei a calci…
Eh, ma io mi accontento dello scrivere sciolto e della grammatica perfetta 😉
La storia è quella che è (e lo scrittore pure) e non si presta molto a grandi voli pindarici.
In ogni caso trovo nel tuo commento tranciante alcune incongruenze. Come fa un racconto ad essere noioso e nello stesso tempo farti desiderare di prendere a calci il protagonista? Io quando mi annoio a leggere un racconto è perché i personaggi o la storia non mi stuzzicano, ne’ in positivo, ne’ in negativo. Anch’io prenderei a calci Jago, ma non mi annoio di certo a leggere l’Otello.
Non capisco quindi se la tua noia riguarda solo il carattere del protagonista (nel senso che uno così non te lo fileresti di una pezza) oppure l’intera storia, compresi gli altri soggetti (Chiara, Franca…).
Se è proprio lo sviluppo della storia ad annoiarti, non trovi stimoli ad andare avanti nella lettura o trovi banali le descrizioni dei soggetti o dell’ambiente, … beh, qui mi devo rassegnare ed accettare di non essere uno scrittore (peccato però 😥 ). Se invece è proprio il carattere del protagonista ad annoiarti, perché è fuori dai tuoi schemi mentali, ho ancora una speranza: ho descritto un personaggio imbranato, antipatico e noioso, però credibile (altrimenti non ti incazzeresti). E qui come autore potrei gongolare 🙂
L’impressione mia è che tu non ami gli imbranati (al contrario di me che li adoro e non sopporto quelli tutti di un pezzo ‘che non devono chiedere mai’). In ogni caso, visto che stai per affrontare anche tu queste forche caudine, rimetto gli abiti dell’arbitro e ti avverto che anche tu (come da trama) dovrai descrivere un personaggio imbranato. Vediamo quanto sarà noioso 😉
Hai ragione non sono stata chiara .( gioco di parole !) scherzi a parte e’ giusto la storia poco si presta a colpi di scena ( forse) morti ( magari) delitti( speriamo!) gl imbranati mi piacciono ma con tanto senso Dell umorismo Il tuo Bruno mi sembra solo imbranato e mi fa venire il nervoso! Un sacco. L ambientazione e’ la tua miglior prova a mio avviso curata credibile mentre sui personaggi può’ fare meglio essere più’ stringato ed incisivo.visto che dipingi uhm pochi pregnanti colpi di pennello che suggeriscono anche ciò’ che non dici meno dettagli eo particolari.meno fiammingo più’ espressionista! 🙂
Il mio Bruno sta venendo fuori con fatica imbrigliato in questa gabbia di regole…però’ non disperò…se non andrà’ bene almeno ci avrò’ provato pace! Labirintico sei labirintico…. 🙂
Sono coerente! Fiammingo nella pittura e nella scrittura. 😀
L’imbranato col senso dell’umorismo è quasi un ossimoro; l’umorismo pretende intelligenza scattante e vivace che poco si confà all’imbranato che ha bisogno dei suoi tempi.
Però, dì la verità, a te ha fatto incazzare soprattutto il finale 😉 Tutte quelle masturbazioni mentali del protagonista per poi mollare l’osso anche dopo averlo finalmente afferrato 😀
No no mi irrita il suo bamblinare inutile.il suo fallimentare destino e’ già’ scritto nel DNA .non forziamolo per carità’ magari cambia e poi cosa faccio?? Così’ sembra dire ..vediamo un po’ che Bruno mi inventò io.
Bamblinare? 😦
Una domanda apparentemente fuori tema: cosa ne pensi di Oblomov?
L ho letto a 16 anni mi ha sconvolto!
Immagino allora che non te lo ricordi molto.
Lo citavo perché ci trovo dei parallelismi (fatte le debite proporzioni, ovvio) tra il mio Bruno e Oblomov, in particolare nel rapporto tra Oblomov e Ol’ga (se lo rammenti). Sono parallelismi che ho notato dopo aver riletto tutto il mio racconto e che non sono voluti (magari è stato il mio subcosciente).
Se Bruno lo prenderesti a calci, penso che ad Oblomov aggiungeresti anche delle randellate. O no?
Mi ricordo benissimo Olga era esasperata dall indecisione di Oblomov oltre che dalla sua dabbenaggine tante’ che finisce per sposare il suo amico eeeeeee addirittura ad allevare suo figlio affidato a lei dalla sua sfortunata moglie proprio per evitare che diventasse come lui….mazzate sui malleoli! Io detestò la gente indecisa pigra ed indolente! Non posso scrivere di un Bruno così’ …imbranato magari ma oblomoviano no!
Mi rincuori 😉
ora non giustificarti nel dire che la storia è quella che è. La stessa per tutt, anche per Ariel. Il suo Bruno sarà forse meno noioso del tuo.
Ribadisco che la storia è quella che è. Ti sembra che la trama si presti a grandi avventure o colpi di scena da romanzo giallo?
la fantasia di uno scrittore per quanto stramba non annoia mai
Mi ritrovo ancora a condividere alcune critiche di Ariel anche se tu vuoi capirne di più…
Mi angoscia un po’ dall’inizio…dal suono della chitarra all’aria che tira: Aria di partenza 😦
Anche per me è un imbranato troppo imbranato 🙂
Ti assicuro che ne ho conosciuti di imbranati e lo sono stata io stessa, però contrapponevo la mia goffaggine con l’ autoironia col sorridere di fronte a situazioni per uscire dall’impaccio… Insomma: l’imbranato umorista esiste!
Poi resterà come ricordo il bacio al sapore di formaggio… è un incubo ad occhi aperti 🙂
Io mi ripeto ma è quello che penso.
– L’autore non si è lasciato andare. Ha scritto quello che in qualche senso “doveva” ma non sempre voleva.
– Non riconosco lo scrivere fluido e senza troppi fronzoli dell’autore (persino nei commenti in risposta sei sempre originale!)
– Si è concentrato troppo sulla pizza e sulla lettera, senza lasciare scivolare la fantasia fuori dal laboratorio… lo chiedo non lo chiedo lo chiedo non lo chiedo 😦
– Scrive “sciolto grammatica perfetta punti e virgola” ma forse manca il “racconto della trama”
penso che se dovessi rileggere i miei commenti alla settimana copierei e incollerei a tratti.
Forse un po’ noioso come dice anche Ariel in quanto siamo abituate negli anni a leggere post tuoi in pochi minuti, a divorarli dalla curiosità con l’attenzione dovuta o col sorriso a seconda dei casi ma Mai noiosi, perfino nei tutorial di come creare un biglietto di auguri
Ora mi fermo perchè le tue risposte mi daranno altro materiale su cui riflettere 😛 o contraddirmi.
Servirebbe a poco copiare/incollare i tuoi commenti precedenti perché io replicherei con il copia/incolla delle mie risposte precedenti 😉
Al di là del giudizio che dai sul capitolo (o sul racconto intero?) io ritengo che tu nella lettura ti sia fatta influenzare da una tua aspettativa tradita. Tu avresti voluto che io scrivessi un racconto ironico, mentre io ho scelto invece una storia seria (molto più di quello che poi sono riuscito realmente ad esprimere).
Con tutta la più buona volontà non potevo usare un registro leggero come invece ti aspettavi. Io ho voluto (non dovuto) scrivere seriamente una cosa seria mentre tu, capitolo dopo capitolo, non ti rassegnavi al fatto che non mi lasciassi andare. A parte il fatto che dici di non riconoscere lo stile fluido e poi subito sotto dici che “scrive sciolto” 😉
Comunque capisco ciò che intendi dire (e che Ariel traduce in barocco), ma lo contesto. Anzi dirò di più, io ho scritto proprio senza fronzoli (probabilmente addirittura troppo), ma l’ho fatto dove voi non avete guardato. Forse perché distratte dalla pizza. 😛
Il diavolo, come si sa, bisogna cercarlo nei dettagli, ma i dettagli sono stati tutti trascurati ed invece, nelle mie intenzioni, erano il vero succo del racconto. A dire il vero tu qualcosa hai subodorato (anche Ariel in un certo senso), ma, sviata dalle aspettative di cui sopra, hai abbandonato l’unica chiave di lettura che io avevo in testa 😛
Su tutto questo e sull’imbranataggine avrei molto da dire (e da ridire), ma mi riservo di farlo eventualmente in un post ad hoc nella categoria Stimoli.
Perché mi sta venendo un’altra ideuzza… 😉
no l ho anche precisato…( con l attenzione dovuta O col sorriso ) non è il tuo scrivere ironico ma il tuo scrivere fluido… qui non mi sembra impacciato soltanto il protagonista ma a tratti anche lo scrittore….nel raccontare la trama non nella grammatica. Lasciarsi andare non significa far ridere ma anzi a volte è anche il contrario,,,,attento a non lasciar andare le emozioni , distaccato in qualche modo. Forse proprio per paura che il protagonista potesse essere scambiato per lo scrittore come proprio a voler sottolineare che di Bruno ha solo il nome…
invece io non direi senza fronzoli ma con troppi fronzoli…troppe seghe mentali sull andirivieni di alcuni passaggi…
io non sono brava come te a centrare il discorso e quindi a volte non mi spiego bene ma di certo non mi aspettavo un pagliaccio, anzi. lì dove non eri incastrato nell’ ambiente ma quando eri libero di viaggiare sul tram o sul treno o passeggiare per la strada…lì eri fluido e sciolto…quando dovevi raccontare la trama a quel punto ti vedevo troppo fermo.
tu hai scritto ” i racconti della trama” più che “il racconto della trama”…
ma poi sei bravo a rigirarmela intorno 😛
Siamo sostanzialmente d’accordo. Lo so bene che in certi punti la scrittura è inceppata, e avrei voluto essere più sciolto, ma i motivi sono nei miei limiti di scrittore e non nel presunto intreccio tra protagonista ed autore. Questo, torno a ribadire, è stato un tuo limite nella lettura che ho cercato di denunciare fin dai primissimi commenti. Sei tu alla fine quella che non è riuscita a separare le due figure (… e il cancro, … e il protagonista che non assomiglia all’autore del blog, … e lo scrittore che non assomiglia all’autore del blog…). 😛
Sui fronzoli hai finalmente centrato ciò che volevo dire: ho tratteggiato (almeno era la mia intenzione) con pennellate “espressioniste” molte figure (il famoso materiale sprecato) per creare un ambiente senza descriverlo. Poi bisogna vedere se tanti pezzi espressionisti messi tutti insieme formano un pezzo barocco o un pezzo superimpressionista 😉
Dovrò rileggere anch’io con calma tutto il racconto perché mi piacerebbe capire dove esattamente il protagonista dia l’impressione di essere così imbranato o addirittura pagliaccio. Perché mica son convinto di tutta questa storia… mumble…
Questo, torno a ribadire, è stato un tuo limite nella lettura che ho cercato di denunciare fin dai primissimi commenti. Sei tu alla fine quella che non è riuscita a separare le due figure (… e il cancro, … e il protagonista che non assomiglia all’autore del blog, … e lo scrittore che non assomiglia all’autore del blog…).
Infatti sei tu che continui a denunciarla e a ribadire una cosa sbagliata.
io non l ho mai detto. anzi continuo a dire il contrario evidentemente non sono abbastanza chiara quando scrivo 😦
non ho commentato ne di cancro ne di somiglianze mi sembra.
e me l hai rigirata ancora ma in effetti non rispondi a quello che io in realtà ho commentato.
Vabbé non vado a rivangare il passato però voglio riportare il tuo primissimo commento al mio primo capitolo dove introducevo il protagonista: …E intravedo un certo Bruno….
Checcevoifà? A me sembra una focaccia 😉
di certo non mi aspettavo un pagliaccio, anzi !
quello che scrivo me lo rivolti al contrario non ti capisco 🙂
Rispondo subito a questo perché è facile (per l’altro commento dovrò fare una ricerca nel passato… che fatica però mi fai fare).
di certo non mi aspettavo un pagliaccio in italiano significa che hai trovato un pagliaccio che non ti aspettavi. Non so nella lingua della macroregione 😛
uff non è così! tu rigiri la frittata…
non mi aspettavo nel senso di non aspettativa…
non volevo certo che tu scrivessi di un pagliaccio … te l ho detto che mi rigiri la frittata…e poi
non devi andare nel passato basta guardare i commenti del settimo giorno…
e ti assicuro che io parlo di pane e tu di focaccia!
Ma perché dovrei rigirare la frittata? Solo per farti dispetto? Io rispondo a ciò che capisco dal tuo modo di scrivere. 😦
Quando parlavo di macroregione non era solo una battuta: non escludo che certe espressioni abbiano una valenza in un’area e un’altra valenza in un’altra area. In più, come già detto infinite volte, nei commenti viene a mancare l’espressione, la cadenza… così è facile prendere fischi per fiaschi.
Forse comincio a capire come funziona. È capitato anche in passato che tu, per contestare la mia interpretazione del tuo scritto, abbia riscritto esattamente la stessa cosa; come a dire: vedi? io ho scritto questa cosa qui, non quello che dici tu. Però siccome riscrivere la stessa cosa non può cambiare l’interpretazione, io sono sempre rimasto lì come un baccalà. Anche in questo commento tu scrivi: non mi aspettavo nel senso di non aspettativa… non volevo certo che tu scrivessi di un pagliaccio …
che è sostanzialmente la stessa cosa di prima, forse un po’ più confusa, e quindi io non ho capito cosa volevi dire realmente. Forse manca un pezzo? Una conclusione? Una coda?… assaperlo. 😛
Per stare alla tua metafora è evidente che tu parli di pane e io di focaccia; il problema nasce dal fatto che la tua descrizione del pane è quella che io uso per descrivere la focaccia. E viceversa.
Ulteriore esempio quando tu dici che non rispondo al tuo commento subito dopo che io ti ho scritto che siamo sostanzialmente d’accordo, che qualche volta la mia scrittura è inceppata e che hai colto la questione dell’arzigogolare.
In pratica siamo d’accordo sul 75%. Più di così cosa devo fare? Vuoi il 100% come Grillo? Scordatelo! 😛
oibò oserei aggiungere!
cmq sostanzialmente hai risposto a tutti i punti ma ne manca sempre uno…
vediamo se lo trovi 😛
ps: non intendevo scrivere che è un pagliaccio…anche perché ho detto che lo trovo “attento a non lasciarsi andare alle emozioni…distaccato in qualche modo!
cmq in ogni caso se non ci fossi io che ti faccio arrotare le rotelle 😛
No, no, dimmelo te l’altro punto. Io ormai ho fuso… 😥
Io non sono barocca …o si?
Nell’uso degli accenti, puntini di sospensione, punteggiatura ed apostrofi… forse sì 😛
Tieni tanta ragione…
Bruno caro sono in crisi….scrivere su traccia non è’ facile porca miseria….
Non è facile no. Per questo ho organizzato questo gioco.
😉
mi sa tanto che l’hai finito!!! altro che crisiiiiiiiiiii!