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Chi si volesse divertire a farsi leggere il proprio racconto dal computer deve seguire la procedura descritta in questo post: Come ascoltare i documenti in pdf

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Urge copertina

Avete scritto il vostro racconto (o lo state scrivendo), perché non completarlo con una copertina adeguata?

Ho in serbo un piccolo regalo. 😉

Gli autori sono invitati a postare su questo blog (categoria Stimoli) la copertina ideale del loro lavoro sotto forma di immagine. E, intanto che ci sono, indicare anche che tipo di testo ritengano trattarsi (Romanzo, Racconto, Novella, ecc…) ed eventualmente apportare correzioni alla punteggiatura e sintassi.

Dimenticavo: nella copertina apparirà il nome dell’autore, come lo volete? Nome vero (con cognome) oppure solo il nickname?

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Giovedì: la lettera

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Quella mattina lo scuotimento del treno che mi portava a Piazzale Flaminio cercava in tutti i modi di infierire sulla mia mente obnubilata da una notte passata insonne.
Avevo comprato il giornale poco prima di partire, perché attratto dal titolo principale in cui veniva citata Ravenna, e questo aveva tenuta desta la mia attenzione per un po’. Sentivo la lontananza dalla mia città e quelle poche volte che, in giro per l’Italia, avevo modo di vederla citata il cuore mi si riempiva di orgoglio e malinconia. Comprai quindi subito il giornale, invece di aspettare mezzogiorno come al solito, e mi buttai immediatamente nella lettura dell’articolo.
In realtà la parte principale riguardava le elezioni in Sicilia e di come il partito avesse fatto fronte ad un tentativo di rinvio pianificato dalla DC. Solo nella seconda parte, sempre in tema di elezioni, si parlava della situazione di Ravenna dove il sindaco si era dimesso.
In altri momenti mi sarei letto e riletto più volte l’articolo per assaporare fino all’ultima virgola il sapore della mia città lontana. Quel giorno invece faticai molto a terminarlo.
Dopo un primo momento di eccitazione la stanchezza cominciò a farsi sentire. Le palpebre mi cadevano pesanti e le lettere del testo si confondevano in segni senza senso. Ero costretto a rileggere più volte la stessa riga per poter afferrare i concetti espressi. Alla fine mi arresi e rinunciai alla lettura.
La sera prima ero rientrato tardi e mi ero buttato subito sul letto, addormentandomi all’istante. Ad un certo momento però mi ero svegliato completamente vigile ed insonne.
Avevo acceso la luce e con mio rammarico la sveglia mi aveva indicato chiaramente che avevo dormito si e no un’ora.
Inutili i tentativi successivi di riaddormentarmi. I pensieri arrivavano e si sovrapponevano gli uni sugli altri, come le onde sulla spiaggia. Alla fine era rimasto un unico mare di pensieri sparsi che non mi avrebbe fatto più riprendere sonno.
Nel dormiveglia mi rendevo conto che fino a quel momento avevo solo giocato con le mie supposizioni.
Piacevo a Chiara, però forse interpretavo male.
Gli amici mi spingevano verso di lei, ma forse non era così.
Franca mi stuzzicava per buttarmi tra le sue braccia, ma forse Franca voleva solo prendermi in giro.
Però ora c’era quel libro. Il titolo significava chiaramente che chi vuol capire capisca, e, se non capisce ancora, ci aggiungiamo anche una dichiarazione di “affetto” piuttosto esplicita.
E a questo punto cosa dovevo fare io?
Non potevo più tirarmi indietro. Ora tutti si aspettavano da me una mossa concreta. Se non l’avessi fatta sarei rimasto marchiato a vita come un inetto, imbelle e insignificante ragazzotto. In un ambiente piccolo come la nostra azienda non avrei saputo resistere a lungo in tale stato.
Non era però questo che mi faceva montare lo sconforto, era piuttosto la consapevolezza che quei giudizi in fondo erano la verità.
Così infatti mi sentivo.
Il giornale mi scivolò dalle mani ed ebbi un guizzo improvviso per riafferrarlo. Vicino a me nello scompartimento sedevano due ragazze, certamente due studentesse, che si girarono al mio brusco movimento e mi sorrisero. Risposi con una leggera smorfia, mentre loro tornavano a parlottare dei propri affari.
Una delle due era molto graziosa, con belle mani dalle dita affusolate tra cui bruciava indolente una sigaretta.
Provai a tornare a leggere il giornale.
La Roma era stata sconfitta in Polonia dalla monetina. C’era di che prendere per i fondelli mezzo ufficio quella mattina, ma non era aria per me. Ero ormai l’ultimo che si potesse permettere di sfottere chiunque altro.
Le due ragazze ridacchiarono attirando la mia attenzione. Potei così cogliere per un istante lo sguardo della più carina su di me. Lo tolse immediatamente, riportandolo sull’amica, mentre si accucciavano tra loro a ridere sommessamente.
Aveva una minigonna che esaltava le sue gambe tornite e l’insieme era davvero un bel vedere, al contrario dell’amica che era invece piuttosto insignificante. Era la ragazza adatta a me insomma. Se solo fossi stato più vigile.
Riportai la mia attenzione al giornale sfogliandolo platealmente per superare il momento di imbarazzo che si era creato.
“Scusa!”
Dovette ripetere prima che io mi rendessi conto che si stava rivolgendo a me.
“Scusa, non stavamo ridendo di te. È che la mia amica è un po’ stupida.” disse quella carina, mentre l’altra, ancora ridendo, le dava una botta sull’avambraccio.
“Vedi? Non ci sta tutta con la testa.” aggiunse, ridendo lei a sua volta e rispondendo con ripetute smanacciate della mano libera verso l’amica, mentre teneva in alto quella con la sigaretta.
“Non preoccupatevi.” risposi, ridendo a mia volta. “Sono talmente rintronato dal sonno che potete fare o dire di me quello che vi pare”.
“Allora ne approfittiamo!” disse l’altra gioiosa.
“Dai piantala! Lasciamolo stare.” replicò la prima ragazza elargendomi un piacevole sorriso.
“Scusa di nuovo.” aggiunse.
“Scusa!” la scimmiottò l’amica.
Feci cenno con la mano che era tutto a posto e loro tornarono a confabulare, chine una sull’altra.
Cercai di darmi un contegno immergendomi nuovamente nella lettura del giornale, ma la mia mente si ostinava a non partecipare. Captavo i loro discorsi, e le parole dette si mescolavano a quelle che cercavo di leggere. Finché gli occhi, appesantiti dal sonno, si rifiutarono di fare oltre il loro lavoro. Rimasero le orecchie a tenermi in contatto con l’ambiente.
“… no, davvero, questa storia non la capisco.”
“Cosa vuoi capire? È così…”
“E tu telefonagli!”
“L’ho fatto, l’ho fatto. Mi risponde sempre sua madre: non c’è!, è appena uscito!, sta ancora dormendo… Fanculo.”
“È scemo, però, se fa così.”
“Non so più cosa pensare…”
“Non ti merita, credimi.”
“E sai che soddisfazione. Devo inventarmi qualcosa invece…”
“Perché non gli scrivi una lettera? Senza mittente! Così sarà costretto a leggerla.”
“Una lettera?”
Una lettera!! Di colpo la sonnolenza svanì. Questa era un’idea!
Sapevo che non ce l’avrei mai fatta a chiedere a Chiara un appuntamento a voce. Mi agitavo troppo, mi richiudevo e non trovavo le parole… ma una lettera…
Lì le parole le avrei trovate di sicuro. Con tutta calma avrei potuto invitarla, fare lo spiritoso, ricoprirmi anche di ridicolo. La carta sarebbe stata come un vetro frapposto tra noi, dietro al quale mi sentivo più libero di improvvisare.
La mia fantasia cominciò subito a lavorare: avrei scritto una lettera formale, tipo ufficio che so, magari con preghiera di risposta urgente. Un testo formale e spiritoso allo stesso tempo. La lettera stessa in fondo sarebbe stata un modo originale per un invito in pizzeria.
Capivo in quel momento che la mia paura reale era solo quella di un rifiuto da parte di lei. Fino a quel momento mi era venuta a mancare l’idea vincente, una idea a cui non potesse dire di no; ora invece ce l’avevo.
Certo avrebbe potuto dire di no anche ad una lettera, ma, per come la stavo immaginando, sarebbe stato solo una specie di gioco e se avesse detto di no, pazienza. Era una cosa molto meno impegnativa e, in un gioco, non si può sempre vincere. E poi, per dirla tutta, la possibilità di perdere era quella a cui più ambivo. L’importante era che non sembrasse una cosa troppo seria. Anzi, le avrei chiesto di rispondere in modo altrettanto formale, per vedere cosa si sarebbe inventata.
Piegai con affettazione il giornale e mi alzai impaziente dal mio posto per prepararmi all’uscita, anche se ancora non eravamo arrivati in stazione. Le due ragazze sollevarono il viso a guardarmi.
Facendo con l’indice un gesto in aria dissi con solennità: “L’idea della lettera è certamente buona.”. Poi mi girai e mi incamminai lungo il corridoio lasciandole a bocca aperta. Quella carina la segnai in un angolo della mia mente: se faceva quella tratta di routine, contavo di rivederla prima o poi.
La mattinata era partita male, ma ora mi sentivo già ringalluzzito mentre salivo col mio solito passo le scale che portavano all’ufficio. Avevo un lavoro da fare ben preciso.
Spinsi con decisione la porta di ingresso e mi ritrovai avvolto da una confusione assurda.
L’atrio era pieno di gente come non mai. Praticamente tutti i dirigenti erano fuori dai loro uffici assieme al grande capo e facevano capannello attorno a due personaggi piuttosto bizzarri, accompagnati a loro volta, a quanto sembrava, da serissimi funzionari di qualche ente in giacca e cravatta di ordinanza.
Probabilmente una commissione che era venuta a vedere i nostri lavori o qualche nuovo cliente.
La cosa strana che mi colpì fu che tutti sembravano pendere dalle labbra di quei due tipi.
Piuttosto trasandati, coi loro jeans stinti e camicie fuori dai pantaloni, facevano un netto contrasto con la seriosa eleganza di tutti gli altri. Me escluso naturalmente, visto che anch’io indossavo i jeans. Però i miei non erano stinti e tenevo la camicia dentro.
Entrambi piccoli di statura, portavano lunghi capelli fluenti alle spalle e forse non pulitissimi. Uno, il più giovane, aveva un paio di baffi alla Ho Chi Min e un grosso sigaro  in bocca, mentre l’altro si limitava a portare un pizzetto da capra, già ingrigito dall’età, e indossava occhialini tondi da rivoluzionario anni ’20.
Era strano vedere una scena del genere. Di solito era il grande capo a concionare e gli altri a prestare attenzione. Qui c’erano praticamente due barboni che discutevano alla pari coi nostri altezzosi dirigenti. Facendo per di più una gran caciara. Roba mai vista.
Mi infiltrai per passare e quando fui davanti a Franca feci un muto cenno interrogativo. Lei mi rispose muovendo silenziosamente le labbra: “Sono due consulenti nuovi”.
Feci segno di aver capito e scivolai lungo la scrivania di Chiara per infilare il corridoio. Lei non era al suo posto, ma stava rovistando nell’armadietto vicino alla finestra girandomi le spalle. Notai che quel giorno anche lei indossava i jeans e non potei non notare che aveva un culetto niente male.
Una fragorosa risata collettiva riempì l’ingresso, mentre il pizzetto caprino agitava in aria le mani; probabilmente stava narrando qualche buffo aneddoto.
Quando fui in laboratorio dovetti subito mettere un po’ d’ordine tra le mie cose che avevo precipitosamente lasciato la sera prima.
Distratto dalla confusione che si sentiva provenire dall’atrio, mi trovai senza accorgermene immerso nel quotidiano tran tran delle analisi, dimentico della lettera che dovevo scrivere.
Ci volle quasi una mezz’ora prima che il silenzio solito tornasse nell’azienda, ma io non me ne accorsi neppure, troppo preso dai miei calcoli e grafici. Solo a metà mattinata mi ricordai improvvisamente della lettera.
Cominciai a cercare freneticamente una busta per tutto il laboratorio. Non avevo ancora deciso come consegnare la missiva, ma in quel momento la busta mi sembrava una di quelle cose assolutamente imprescindibili.
La trovai in fondo ad un armadietto, assieme ad altre decine, e così non ebbi più scuse.
Mi sedetti alla scrivania, presi un foglio e cominciai a scrivere, prima con titubanza, poi con sempre maggior scioltezza:
Egr. Sig.na Chiara,
con la presente vorrei metterLa al corrente di una situazione ormai insostenibile, per la quale chiedo cortesemente il suo aiuto.
È da diversi giorni che gradirei avere la Sua esimia compagnia davanti ad una pizza, però, a causa della mia rinomata imbranataggine e dell’avversa fortuna degli dei, non sono mai riuscito a trovare occasione opportuna per invitarLa.
La pregherei perciò di venirmi incontro e accettare questa mia comunicazione come invito ufficiale affinché si possa superare questo ostico scoglio.
Resta inteso che la pizza non sarà ‘alla romana’, ma sarà offerta dal sottoscritto assieme alle bevande di Suo gradimento. Così come sarà Sua, se Ella lo vorrà, la scelta del locale.
Rilessi più volte quanto scritto. Mi sembrava del tono giusto, almeno per una prima bozza. Dovevo solo indicare la modalità di risposta, ma capii che fargliela scrivere a sua volta complicava solo le cose. Così aggiunsi:
Le faccio cortesemente presente che questo invito si deve intendere valido esclusivamente per questa sera, in quanto urgenti impegni familiari mi obbligano ad assentarmi per il fine settimana. Approfitti quindi subito di questa straordinaria occasione.
Fiducioso in una Sua sollecita risposta, La prego di barrare la casella di suo interesse e rimettere la presente al mittente entro l’orario di ufficio.
[ ] Sì, sono entusiasta
     [ ] No, non mi piace la pizza
     [ ] No, non me ne può fregare di meno
Roma, li 23 aprile 1970
La rilessi ancora un paio di volte. Poteva andare, anche se avrei potuto fare di meglio, ma il tempo stringeva. Avevo accuratamente evitato di scrivere il mio nome, così, se fosse caduta nelle mani sbagliate, non avrei corso troppi rischi. Anche se questo mi complicava la vita per la consegna.
La piegai per bene e l’infilai accuratamente nella busta pensando al modo migliore di farla arrivare all’interessata.
In un primo momento avevo pensata di mettergliela di nascosto tra le sue carte, però avrei dovuto firmarla per farmi riconoscere, quindi dovevo trovare un’altra strada.
Non feci in tempo a scrivere il nome della destinataria sulla busta che sentii bussare alla porta.
Rimasi a bocca aperta al vedere la testa di Chiara, incorniciata dai lisci capelli neri, affacciarsi nel vano semiaperto.
“Il grande capo ti vuole.” disse con tono neutro.
“Ah, sì?”
“Sì. Dice anche di portarti dietro tutta la documentazione di Foggia.”
“Foggia?” chiesi sorpreso “Ma io sto lavorando alla Piana Pontina!”
Fece spallucce e accennò a ritirarsi dalla porta.
“Aspetta!” quasi gridai.
Si riaffacciò con aria interrogativa.
Presi con titubanza la lettera tra le mani.
“Quando vorrebbe vedermi?”
“Subito.”
Accennò nuovamente a girarsi.
“Senti” dissi con un po’ di agitazione “Mi faresti mica un favore?”
Alzò gli occhi al cielo e si decise a fare un passo all’interno della stanza.
“Vado di fretta.” disse.
“Eh, lo vedo, ma è una cosa da niente.”
Rimase sulla porta. “Che c’è?” chiese.
Le andai incontro con la busta tra le mani.
“Ecco… potresti mica battermi questa lettera in bella copia?”
Non so come mi venne quella frase, non avevo ancora preparato nessuna strategia al riguardo della lettera.
Fissò la busta e fece una smorfia.
“Dammela, la metterò tra gli altri lavori…” disse allungando la mano.
“Non è di lavoro… è… è una cosa personale.” balbettai.
Sospirò lievemente.
“Per quando ti serve?”
“Per stasera” risposi rapido.
Scosse la testa.
“No, non ho il tempo. Oggi sono impegnatissima.” disse tornando a girarsi verso la porta.
“Ma è una cosa da niente! Ti porterà via… cinque minuti… anzi due!”
Sorrise paziente.
“In due minuti non faccio nemmeno in tempo a infilare la carta nel carrello.”
“Eddai, che sei velocissima…”
“Di che cosa si tratta di così urgente?”
“Eh… si tratta… di una specie di domanda di colloquio…” sparai tutto di un fiato. “Vorrei che fosse battuta in modo professionale per fare la mia figura… capisci.”
Per un attimo spalancò gli occhi, poi li strinse in una fessura oltre la quale vedevo balenare un azzurro cupo.
“E magari è bene che non lo sappia nessuno” disse con tono di mistero.
“Era proprio la mia idea!” assentii con un largo sorriso.
“Non se ne parla nemmeno!”
“Perché?” chiesi con sorpresa.
Avvicinò il suo viso al mio il più possibile, stante la differenza di statura tra di noi.
“Ti vuoi licenziare!” asserì convinta.
Scoppiai a ridere.
“Ma no! Ma cosa ti viene in mente.”
“Scusa, sai. Una domanda di colloquio… una cosa personale… che deve restare segreta… Non mi tirare in mezzo a queste cose! Ci tengo io al mio posto di lavoro!”
“Ma cosa c’entra il tuo posto di lavoro?”
“C’entra!… Se si viene a sapere che ti ho dato una mano a passare alla concorrenza… mi danno subito il benservito! Dopo me lo trovi te un altro lavoro?”
In quel momento arrivò uno dei disegnatori e si insinuò tra noi e la porta per entrare.
“Scusate. Vengo a prendere un po’ d’acqua”
“Fai pure.” dissi facendomi da parte.
Ogni tanto capitava che dalla sala disegni venisse qualcuno a prendere dell’acqua per i colori, essendo la sala disegni più vicina al laboratorio che non alla toilette.
Il ragazzo andò direttamente al lavabo con la sua bottiglietta vuota. Sapeva la strada.
Tornai a rivolgermi a Chiara, che nel frattempo era uscita nel corridoio.
Le porsi la busta e le dissi sottovoce: “Non è niente di tutto questo, lo potrai vedere coi tuoi occhi appena apri la busta. Anzi la puoi aprire anche subito…”. Non so come ebbi il coraggio di pronunciare quell’ultima frase.
Scosse la testa. “No. Davvero, non ho il tempo.”
Le ficcai la busta tra le mani. “Facciamo così. Tu gli dai un’occhiata… se vedi che ti porta via troppo tempo… amen.”
“E il tuo colloquio?”
Mi strinsi nelle spalle. “Ne ho un’altra copia a mano. Userò quella.” mentii.
“Ma perché? È così importante? La devi consegnare proprio stasera?”
“È importante, sì. E poi scadono i termini.” sospirai con rassegnazione.
Prese la busta malvolentieri e si girò per tornare al suo posto.
La guardai allontanarsi con la sua tipica andatura. Che cominciavo a trovare piacevole, soprattutto quando indossava un paio di jeans a evidenziarne il culetto tondo.
Mi sentii battere due colpetti sulla spalla. Il disegnatore voleva uscire dal laboratorio. Mi scansai per farlo passare e lui si fermò al mio fianco a guardare a sua volta la figura di Chiara che si allontanava lungo il corridoio. Girò il viso verso di me, con aria complice.
“Eh…” si limitò a dire, annuendo con la testa.
Annuii anch’io, senza sapere bene perché. Lui tornò nella sala disegni e io rientrai in laboratorio.
“Eh…” ripetei mentalmente “Tutti la trovano interessante. Dov’è che sbaglio io?”
Cominciai a preparare con cura la documentazione di Foggia. Era già messa tutta da una parte, ma la riguardai con pignoleria per essere sicuro che fosse bene in ordine e soprattutto per dare tempo a Chiara di leggere la lettera. Con un po’ di titubanza mi misi infine le carte sotto il braccio e mi incamminai lungo il corridoio.
Arrivato davanti alle segretarie mi fermai un attimo. Chiara, percependo la mia presenza, alzò uno sguardo distratto e tornò indifferente alla sua occupazione. Stessa cosa da parte di Franca.
Ci rimasi un po’ male.
Mi diressi verso l’ufficio del capo, ma prima che alzassi il braccio per bussare mi giunse un “Ah, ah!” di Franca.
“Aspetta lì.” mi disse “È occupato adesso.”
Cominciai a dondolare da una gamba all’altra sbuffando. Nessuna delle due mi degnava. Chiara era presissima e Franca mi diede la netta impressione che non le girasse proprio. Sembrava quasi che avessero litigato.
Ogni tanto gettavo un’occhiata di straforo verso Chiara per captare qualsiasi reazione che potesse aver a che fare con la mia lettera, ma non mi si filava proprio. Potevo essere tranquillamente uno dei portacenere dell’ingresso.
L’atteggiamento delle due ragazze però mi consolava di un fatto: certamente Chiara non aveva fatto cenno della lettera all’amica.
All’improvviso si spalancò la porta dell’ingresso ed entrò Francesco, in piena tenuta mimetica da campagna e con aria spavalda.
“Buongiorno alle più belle ragazze di Roma! Come state?”
Si diresse a lunghe falcate, per quanto concesso dalle sue corte gambe, verso le segretarie che sembrarono improvvisamente svegliarsi dal torpore. Si alzarono entrambe per salutarlo e lui corse prima ad abbracciare e baciare Franca sulle guance, poi rivolse le sue attenzioni a Chiara. “Lo sai che ti voglio bene,” le disse “ma prima viene la ‘capa’. Poi vieni tu, ma tu sarai sempre la ‘capa’ del mio cuore.”
“Grazie, mi lusinghi.” replicò Chiara con un grande sorriso, dopo aver ricambiato i suoi baci con affettazione.
Franca tornò a sedersi e gli chiese da dove sbucasse, e lui rispose che era appena rientrato dalla Sardegna. E, per quanto mi riguardava, avrebbe potuto anche restarci.
Finalmente dette segno di avermi notato e si rivolse a me: “Oh, Bruno! Vedo che ti hanno promosso usciere.”
Chiara ridacchiò mentre tornava al suo lavoro.
“Ti sbagli” replicai “Sono stato promosso buttafuori.”
Però lui non afferrò il senso della mia risposta perché già non mi ascoltava più ed era tornato a prestare attenzione a Chiara.
“Dì la verità. Ti sono mancato?”
“Non sai quanto.” cinquettò lei. “Sai già dove sei destinato ora?” gli chiese.
“Occhi belli, sei tu che me lo devi dire.”
“Aspetta che ti cerco la missione” disse lei, chinandosi sorridente a cercare sotto il ripiano della scrivania.
Francesco allungò il collo per osservarla meglio. “Se mi dai una missione qui vicino, stasera ti invito fuori a cena.”
“Magari.” replicò Chiara rialzandosi e sistemandosi una ciocca di capelli. “Però non sono io a stabilire le missioni purtroppo.”
“Ecco qua!” aggiunse sbattendo una cartellina sulla scrivania e indicando con l’indice il testo scritto a pennarello “Pergine Valdarno!”
“Beh, non è proprio qui in periferia. Ma non è lontanissimo, per te potrei fare uno sforzo. Ti invito a cena e poi faccio il viaggio di notte. Che ne dici?”
Per un attimo ebbi il terrore che lei gli rispondesse di sì.
Quella conversazione mi aveva messo addosso una profonda tristezza. La semplicità e naturalezza con cui lui l’aveva invitata a cena facevano apparire improvvisamente complicata e ridicola la mia lettera, che avevo immaginato invece spiritosa ed originale.
Chiara gli sorrise amabile. “Stasera non posso. Mi sarebbe piaciuto, ma proprio non posso. E non voglio nemmeno averti sulla coscienza se poi ti dovessi addormentare in autostrada.”
Lui rispose che, se avesse accettato, sarebbe rimasto sveglio più che mai, altro che addormentarsi; ma questa volta ero io a non prestargli più attenzione. Quel “Stasera non posso.” mi aveva risollevato subito l’umore.
Chiara aveva letto la lettera ed aveva deciso che usciva con me e non con quello stupido ometto.
In realtà Francesco non era uno “stupido ometto”. Certo non era particolarmente intelligente e non era altissimo (più o meno come Chiara), ma era comunque un bel ragazzo. Dal mio punto di vista, a parte i motivi noti di contrasto tra noi, lo trovavo piuttosto demodé. Il suo abbigliamento e soprattutto la sua pettinatura impomatata gli davano un’aria vecchia. Anche il suo modo di esprimersi lo faceva sembrare antico. Era un ragazzo degli anni ’50 piuttosto che dei ’60. Era fuori posto, soprattutto con Chiara.
In quel momento si aprì la porta dell’ufficio del grande capo. Apparvero sulla soglia lui ed un tizio che non conoscevo. Si strinsero la mano per salutarsi e, mentre il tizio si dirigeva verso le segretarie, il grande capo mi fece cenno di accomodarmi.
Entrai malvolentieri. Avrei preferito rimanere a tenere d’occhio Francesco.
Mentre chiudevo la porta, curiosamente il mio pensiero si rivolse a Franca. A parte quell’attimo di saluti, a dire il vero piuttosto formale da parte sua, era rimasta in silenzio e a testa bassa.
Nell’ufficio ritrovai il tizio dalla barba di capra e gli occhialini che mi si fece incontro a stringermi la mano. La sua presa era sicura e il suo alito sapeva di vino.
Il capo ci presentò, lui come dottore ed io come signore, poi si fece consegnare le carte di Foggia che sparse sulla scrivania. Si misero insieme ad esaminarle e a commentare. Io rimasi in piedi a rispondere di volta in volta alle richieste di chiarimenti provenire da uno o dall’altro.
“Lei adesso di cosa si sta occupando?” mi chiese il grande capo.
“Della Piana Pontina” risposi.
Annuì. “Quanto le mancherebbe per finire Foggia, se lasciasse perdere la Piana Pontina?”
Mi strinsi nelle spalle: “Beh, Foggia è praticamente finita. Penso che, lavorandoci tutto il pomeriggio e tutto domani, lunedì gliela potrei già consegnare.”
“Domani è venerdì. Da ciò che ha detto potrei avere il lavoro finito per sabato mattina. Giusto?”
“Beh, sì… ho detto lunedi perché pensavo che il fine settimana…”
“Noi si lavora otto giorni su sette!” disse ridendo l’uomo col pizzetto.
“Domani sera è pronto tutto.” dissi
“Allora facciamo così. Lei domani sera lascia tutto a Chiara, che me lo consegnerà poi sabato mattina.”
“Va bene” dissi.
“Intanto si faccia preparare una missione perché lunedì mattina lei invece dovrà essere a Reggio Calabria.”
Mi sentii mancare il pavimento sotto i piedi.
“Reggio Calabria?! Ma… e le analisi della Piana Pontina?” chiesi esterefatto.
“Abbiamo già provveduto a chi la sostituirà. Però, siccome questa persona non potrà prendere servizio prima della prossima settimana, vi dovrete poi sentire per telefono per le consegne del lavoro.”
“Ho capito.” mormorai a voce bassa.
La cosa mi era arrivata addosso come una valanga, assolutamente imprevista. La mia mente cercava affannosamente di trovare qualche appiglio per prendere tempo.
Tentai di afferrarmi ad un esile filo. “Non so se c’è una macchina pronta per domenica…”
“Non c’è bisogno. Lei andrà in treno. Alla stazione troverà qualcuno che la viene a prendere.”
Sapevo già chi stava lavorando a Reggio Calabria: Michele. E questa era l’unica cosa buona che vedevo in quel momento. Il resto era un caos totale nella mia testa. Dovevo riorganizzarmi e valutai al volo la possibilità di non andare a casa quel fine settimana. Mi volli illudere che si trattasse di una emergenza e che me la sarei cavata con pochi giorni.
“Quanto tempo dovrò stare?” chiesi
“Starete in due per una settimana, giusto per le consegne, e poi dovrà completare il lavoro da solo…”
“Ad occhio parliamo di quattro o cinque mesi.” intervenne l’uomo col pizzetto.
Non un muscolo del mio viso tradì la delusione profonda, ma l’uomo col pizzetto dovette comunque leggere la mia perplessità.
“Qualche problema?” chiese con un sorriso a mostrarmi i denti ingialliti dal troppo fumare.
“No. Stavo pensando a come organizzarmi per il vestiario… contavo di andare a casa per questo fine settimana…”
“Dove abita?” chiese lui di nuovo.
“A Ravenna…”
“Ah, Ravenna! Bella cittadina. Ci sono stato una volta. Ho mangiato proprio bene…”
“Beh, fino a lunedì ha tutto il tempo per organizzarsi.” lo interruppe il grande capo. “Vada pure adesso. Si faccia fare la missione da Chiara o Franca. E termini il lavoro di Foggia per sabato mattina, mi raccomando.”
Raccattai in silenzio le carte che avevo portato ed uscii nell’atrio.
Mi fermai con la porta alle spalle a fissare il vuoto. Dovevo avere un’aria stravolta tanto che sentii Chiara chiedermi: “Che è successo?”
Francesco non c’era più.
Chiara mi guardava sorpresa e anche Franca mi fissava con aria interrogativa.
Mi avvicinai: “Mi mandano a Reggio Calabria”. Neanche avessi detto che mi volevano seppellire vivo.
Chiara gettò un’occhiata all’amica e poi tornò a guardarmi. Sorrideva, ma aveva lo sguardo serio. “Beh? Non sei contento? Vai di nuovo in missione. Vuol dire che è finita la punizione!”
Non avevo pensato a questo aspetto della cosa. Mi consideravano di nuovo affidabile e mi assegnavano anche una grossa missione. Avrei dovuto fare salti di gioia, invece mi sentivo intrappolato.
“Sono contento, infatti. Solo sorpreso.”
“E quando parti?” mi chiese Franca con tono indifferente, mentre Chiara tornava a battere sui tasti della macchina.
“Lunedì devo essere giù.”
“Allora bisognerà prepare la missione. Ci pensi tu Chiara?” disse Franca.
“Va bene, ma c’è tempo anche domani.” rispose lei. “Che strano” aggiunse poi “Sapevo che la missione di Michele durava fino alla fine del mese…”
“Mi deve dare le consegne.” chiarii io.
“Eh, già.” mormorò, senza fermarsi nella battitura. Si arrestò un attimo dandomi un’occhiata pensierosa. Come se volesse chiedermi qualcosa, ma tornò subito al suo lavoro.
Nessuna delle due sembrò avere più niente da dirmi, così mi incamminai mogio verso il laboratorio.
Non riuscivo assolutamente ad essere contento.
È vero, sarei andato a trovare Michele, anche se per pochi giorni.
Era finita la punizione, perciò mi allontanavo per lungo tempo dal pollaio che era l’ufficio.
Avrei vissuto all’aria aperta, gestendomi il lavoro come meglio mi fosse piaciuto.
Avrei lavorato da solo, quindi non avrei corso rischi con qualche collega stronzo come Francesco.
Ero in pratica libero.
Il problema di Chiara, innamorata di me ed io non innamorato di lei, che mi sembrò in quel momento veramente insignificante, era un problema risolto. Semplicemente non dovevo dirle niente. Cinque mesi di lontananza erano una vita, e il discorso si sarebbe spento da sé.
Però non ero felice. Pensare di andare a casa solamente per prendere il ricambio, senza potermi rilassare coi vecchi amici, e poi l’idea di vivere lontano per tutti quei mesi senza più rivedere nessuno, mi rattristava. Anche ciò che mi aveva raccontato a suo tempo Michele non mi faceva esultare. A Reggio Calabria, diceva, le ragazze andavano tutte vestite di nero e, durante il passeggio serale, i maschi stavano su un marciapiedi e le femmine sull’altro e guai ad avvicinarle. Inoltre pareva che in quel momento ci fosse un po’ di maretta per la storia del capoluogo. Michele pensava che le cose avrebbero preso una brutta piega, anche se io la ritenevo una congettura esagerata. Chi vuoi che si ammazzi per un capoluogo?
Mentre mi affannavo a mettere da parte i campioni della Piana Pontina e a rimettere sul bancone gli ultimi di Foggia, pensavo a come farmi ridare la lettera da Chiara.
Non avevo capito se l’avesse letta oppure no. C’era solo quella frase detta a Francesco a farmelo pensare, ma poteva essere una frase di circostanza.
D’altra parte il suo atteggiamento era quello solito. Non un’occhiata o un segnale qualsiasi che mi desse modo di capire che fosse cambiato qualcosa.
Ero orientato ad andare semplicemente a chiedergliela indietro. In fondo, visto che dovevo partire, era ragionevole che rinunciassi ad un colloquio, qualunque argomento trattasse.
Il dubbio che mi tratteneva era la possibilità che invece l’avesse letta. Come avrei spiegato la rinuncia a mangiare un pizza con lei? Reggio Calabria non era certo una spiegazione sufficiente.
Alla fine optai per la pizza. L’idea di passare la serata da solo a pensare a Reggio Calabria, mi metteva malinconia. Mangiare una pizza in compagnia, fosse anche di Chiara, invece mi avrebbe permesso di distrarmi e anche confidare le mie malinconie a qualcuno disposto ad ascoltarle.
In fondo sarebbe cambiato solo l’obiettivo. Non dovevo più dirle che lei non mi interessava, che era la cosa che più mi tratteneva, ma dovevo semplicemente passare una serata piacevole con qualcuno.
Risolto questo piccolo dubbio, mi buttai a corpo morto nelle ultime analisi della mia carriera.
A vedere tutti quei campioni in fila sul bancone cominciai a dubitare di riuscire a terminarli per la sera dopo. Così, all’ora di pranzo, decisi di rinunciare al pasto e di rimanere a lavorare. Mi fermai solo per andare a dare un’occhiata alla postazione di Chiara, mentre lei era a pranzo, nell’eventualità di trovare la lettera da qualche parte, oppure qualche segno della sua risposta.
Sorpresi invece Franca e Gianni intenti in una animata discussione, vicini alla finestra. Chiara non era presente. Ovviamente era andata a mangiare, mentre loro due avevano preferito restare in ufficio a litigare. Questo spiegava l’atteggiamento di Franca.
Feci un cenno con la mano, quasi a scusarmi dell’intromissione involontaria, e mi trovai a sgusciare mio malgrado fuori dalla porta dell’ufficio.
A quel punto ero fuori, tanto valeva scendere a Piazzale Flaminio per farmi almeno un caffé. Forse avrei incontrato Chiara che rientrava.
La incontrai invece al suo solito posto, intenta a battere a macchina, quando rientrai a mia volta. Franca se ne stava immusonita alla sua scrivania a correggere nervosamente un foglio con la matita.
Attraversai l’atrio più lentamente del solito, aspettandomi un segno qualsiasi da parte di Chiara, ma lei mi ignorò completamente.
La cosa mi innervosì. Tornai alle mie provette, con un senso di disagio crescente.
Nel pomeriggio, ogni tanto andavo al gabinetto per poterle passare davanti sperando di captare qualcosa. Tutto inutile, lei era presissima dal lavoro e l’unica frase che mi rivolse in quel frattempo fu se avessi visto Franca da qualche parte.
Alla fine andavo ormai al gabinetto solo per specchiarmi un attimo davanti al lavandino prima di uscire di nuovo, visto che avevo ormai esaurito tutta l’acqua della mia vescica.
Al sopraggiungere dell’orario di chiusura cominciai seriamente ad agitarmi ed il mio umore cambiò radicalmente.
Avrei potuto lavorare fino a tardi, anzi avrei proprio dovuto quel giorno, ma la paura che Chiara se ne andasse senza ricordarsi dell’impegno preso mi fece decidere di interrompere il lavoro e di uscire per tempo.
Arrivai alla sua scrivania e lì mi fermai platealmente.
Lei stava raccogliendo dei fogli in un contenitore e non mi badò subito. Franca non c’era.
Quando finalmente percepì la mia presenza alzò il viso verso di me con espressione interrogativa.
“Allora?” chiesi con un sorriso stiracchiato.
Sembrò non capire, poi strinse gli occhi in una espressione di rammarico.
“La lettera!” esclamò. “Mi dispiace, non ce l’ho fatta proprio. Oggi non mi hanno fatto respirare.” Il suo viso era contrito, ma i suoi occhi mi fissavano attenti.
“Non ce l’hai un minuto, adesso?” chiesi quasi con disperazione.
Lei scosse la testa. “No, mi ha appena chiamato il grande capo. Gli devo portare subito questa roba e poi mi deve dare non so quali disposizioni.”
La mia faccia dovette esprimere tutto il mio disappunto.
“Mi dispiace.” ripetè con tono dolce.
“Non fa niente.” dissi invece con tono tagliente “Non era importante.”
“Hai detto che lo era.”
“Sì, ma non sapevo di Reggio Calabria. La presenterò un’altra volta. Ridammela”
Il mio tono era chiaramente infastidito, come il mio umore.
Lei era combattuta tra la necessità di andare subito dal capo e quella di esprimermi il suo dispiacere.
“Domani mattina sarà la prima cosa che faccio.” disse con convinzione.
“Non mi serve domattina.” replicai secco.
“Lo so, ma ho preso quest’impegno e lo voglio mantenere. La metterai da parte per la prossima occasione.”
“Non serve, davvero. Ridammela” dissi spazientito.
“Non te la do! Questa cosa la voglio fare.” Rispose piccata.
Sospirai con rassegnazione. “Non serve, dai. E poi non è nemmeno scritta bene. Preferisco comunque cambiare il testo.”
“Va bene. Tu cambia il testo e domattina me la porti che te la batto subito per prima cosa.”
“Intanto ridammi la lettera.”
“Tu portami la nuova ed io ti ridò la vecchia”
Stava mostrando un temperamento che non le conoscevo. Sbuffai. “Non intendo scrivere tutto da capo. Devo fare solo qualche correzione. Dai, dammela.”
I suoi occhi blu si fissarono dubbiosi nei miei. Poi si decise e malvolentieri prese la busta da una cartelletta e me la porse.
Prima di consegnarmela però la trattenne un attimo.
“Se domattina non mi porti la nuova versione…”
“Che farai?” chiesi con un debole sorriso.
“… non ti preparo la missione!… E non scherzo.”
Annuii col capo, le sfilai la busta dalla mano e mi girai per uscire.
“Ciao. Buona serata.” mormorai
Lei non rispose.
Mi chiusi la porta alle spalle e sentii improvvisamente dentro di me un gran magone.
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2012 in review

I folletti delle statistiche di WordPress.com hanno preparato un rapporto annuale 2012 per questo blog.

Ecco un estratto:

The London Olympic Stadium is 53 meters high. This blog had about 740 visitors in 2012. If every visitor were a meter, this blog would be 14 times taller than the Olympic Stadium – not too shabby.

Clicca qui per vedere il rapporto completo.

P.S. Il gestore di questo blog non ha nessuna responsabilità sui termini di ricerca utilizzati dai frequentatori, in particolare su quelli inerenti certe nonne sporcaccione 🙂
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Mercoledì: l’occasione sprecata

“Ciao”
La voce di Chiara mi arrivò da dietro, quasi un sussurro. L’impressione fu quella di una voce molto vicina, simile a quella del sogno di qualche giorno prima, e mi immaginai la sua bocca a pochi centimetri dal mio orecchio. Per un attimo avvertii i peli della nuca rizzarsi in maniera imprevista e mi sentii piuttosto in imbarazzo.
Ero appena entrato in ufficio e mi ero chiuso il portone alle spalle dirigendomi dritto verso le scrivanie delle segretarie, stranamente deserte, quando percepii il suo saluto.
Mi girai lentamente.
Chiara in realtà non era così vicina. Era appena uscita dalla toilette, che rimaneva sulla sinistra dell’ingresso, e stava distrattamente frugando nella sua borsa dopo avermi salutato come tutti i giorni. Il silenzio del piccolo atrio deserto aveva amplificato la sua voce dandomi l’impressione che fosse proprio dietro di me.
“Ciao” risposi con tono neutro, aspettando che mi raggiungesse mentre colmava quei due passi che ci separavano.
Lei teneva sempre lo sguardo alla borsa e per poco non mi urtò. Si arrestò sorpresa quando intuì che mi ero fermato ad attenderla e alzò gli occhi verso i miei. Erano veramente belli.
Io in genere avevo difficoltà a conversare con gli altri guardandoli negli occhi. Istintivamente ero portato a concentrarmi sulla bocca. Avevo l’impressione che fissando gli altri negli occhi ne violassi l’intimità e che gli altri violassero la mia.
In quel momento però rimasi a guardare i suoi perché ero affascinato dalle minuscole variazioni di azzurro ceruleo e blu cobalto che li caratterizzavano. Non stavo fissandola negli occhi, glieli osservavo come si fa con un quadro.
Anche lei, per un attimo, dovette trovare qualcosa di interessante nei miei, perché la vidi attenta e concentrata, poi sembrò rendersi conto che non era uno sguardo casuale se si protraeva troppo a lungo, così lo distolse volgendo di nuovo la sua attenzione alla borsa che stava cercando di chiudere con un po’ di difficoltà.
“Cosa ti sei persa lì dentro?” chiesi con una risatina nervosa indicando la borsa col mento.
Ci fu un momento di silenzio impacciato.
Tornò a guardarmi, ma stavolta con uno sguardo furbetto che sbirciava tra la frangia nera del capo chino.
“Il filo del discorso, me sa.” disse con una smorfia.
Non feci in tempo a replicare che la porta dell’amministrazione si aprì lasciando uscire Franca, la quale si soffermò sulla soglia un attimo a fissarci prima di richiudersela alle spalle.
“Cosa state complottando voi due?” chiese con un sorriso complice andando a sedersi alla macchina da scrivere.
Chiara si affrettò a raggiungere la propria scrivania mentre io risposi serioso: “Si stava discutendo dell’opportunità di mettere un semaforo in questo atrio per evitare scontri tra chi va e chi viene”
“Uh” fece Franca, spostando gli occhi leggermente sgranati verso la collega che si limitò a stringersi nelle spalle, replicando con un “Ma figurati.” prima di sedersi a sua volta.
Non mi sentivo in vena di schermaglie ironiche, come era costume tra noi tre quando eravamo in forma. Mi limitai ad un cenno di saluto alzando stancamente una mano e mi incamminai lungo il corridoio diretto al mio antro.
La voce di Franca mi inseguì: “Ma chi è che veniva da destra?”
“Nessuno veniva da destra,” risposi senza fermarmi “è stato solo un rischio tamponamento”
“Non ho rispettato la distanza di sicurezza!” disse Chiara ad alta voce.
“Devi fare attenzione,” la canzonò Franca “non hai dei grandi paraurti”.
Entrambe scoppiarono a ridere mentre io ormai avevo già imboccato la porta del laboratorio.

Mentre cominciavo la solita routine quotidiana mi sentivo strano. Un po’ euforico e un po’ depresso. C’era un pensiero che non riuscivo a togliermi dalla testa.
Preparavo i campioni di acqua da analizzare, attaccavo le etichette alle bottiglie, preparavo la soluzione saponata per le prove di durezza, ma qualunque cosa facessi ormai quel pensiero si era fissato nella mia mente.
Cercai di scacciarlo mettendomi subito al lavoro. Mi apparecchiai tutti gli strumenti vicino al lavello e mi sedetti per cominciare. Una fila ininterrotta di formiche entrava dal finestrotto che dava luce a quell’angolo altrimenti buio del laboratorio, passava sopra il bordo del lavello e si perdeva in una fessura del muro, indifferente alla mia persona ed ai miei pensieri.
Quasi per dispetto riempii una pipetta di sapone e spinsi il sottile getto lungo il camminamento delle formiche per ostacolarle. Rimasi sorpreso e affascinato dal fatto che a contatto della sostanza queste non venivano solo infastidite, come mi aspettavo, ma rimanevano letteralmente fulminate all’istante. Gettai un’altro piccolo schizzo nel foro del muro e nel punto di ingresso. In un attimo nel laboratorio non c’erano più formiche vive.
Divertito dalla scoperta cominciai ad andare a caccia di nuove vittime negli angoli più remoti dell’intero laboratorio, ma trovai solo i resti ormai rinsecchiti di una piccola scolopendra sotto al lavandino.

La caccia alle formiche era servita a distrarmi per qualche momento, però quando cominciai a lavorare sul serio quel pensiero tornò a farsi avanti.
Fare le misure di durezza dell’acqua è un lavoro metodico e noioso. Si tratta di prelevare un campione di acqua, versarvi dentro con una pipetta un quantitativo fisso di uno specifico sapone liquido e poi scuotere a mano il tutto per un tempo prefissato. Si forma così uno strato di schiuma sulla superficie del campione il cui spessore va misurato ad indicare il grado di durezza.
All’inizio di questa mia attività in punizione ci mettevo molto impegno ed attenzione, ma ormai le mie azioni erano completamente automatiche e potevo tranquillamente vagabondare tra mille altri pensieri contemporaneamente.
E quel giorno il mio pensiero ormai fisso era Chiara al gabinetto.
Chiara seduta sulla tazza, le mutande alle caviglie, mentre faceva pipì era un’immagine che non riuscivo a scacciare.
Fino a quel momento Chiara per me era stata sempre un essere asessuato. Ad esclusione di ciò che si vedeva, non aveva neppure la pelle sotto i vestiti; i suoi abiti erano la sua pelle, come una bambola di stoffa. Era una presenza scenica della mia vita di ufficio, con cui scambiare ogni tanto qualche parola, non una persona reale in carne ed ossa. Così come tutte le altre persone dell’ufficio in fondo.
Carne. Invece adesso la vedevo per la prima volta come carne, sangue, e un sesso ben preciso che faceva pipì.
Realizzavo in quel momento che aveva lo stesso sesso che guardavo eccitato in certi giornali che compravo, non senza un qualche imbarazzo, alla stazione Termini.

Per la prima volta mi trovai a dover ripetere una misurazione. Mi ero incantato ad immaginare Chiara completamente nuda, con in più i suoi piccoli paraurti, e avevo lasciato che la schiuma nel campione si esaurisse.
Cercai di concentrarmi sul lavoro come nei primi tempi, ma quel pensiero stava diventando ossessivo. Decisi che dovevo fare una pausa per distrarmi. Mi serviva un caffé, anche se lo avevo già preso da nemmeno una mezz’ora, perciò abbandonai tutto per scendere al bar di Piazzale Flaminio.
Infilai spedito il corridoio e mi sforzai di non pensare al sesso di Chiara una volta che le fossi inevitabilmente passato davanti per uscire.
Mentre mi avvicinavo all’atrio sentii un parlare fitto e qualche risatina dietro l’angolo del corridoio dove stavano le due segretarie.
Arrivato davanti alle scrivanie la mia comparsa destò una certa agitazione. Le due ragazze stavano confabulando presso la postazione di Franca. Franca era seduta al suo posto e Chiara era in piedi dietro di lei, china oltre la spalla dell’amica.
Al mio apparire alzarono contemporaneamente la testa e mi guardarono entrambe con un’espressione di sbalordimento. Franca si affrettò a chiudere un cassetto che teneva aperto, mentre Chiara, dopo essersi rialzata lentamente ed essersi messa a posto la frangetta con esagerata noncuranza, tornò al proprio posto.
“È tutto chiaro adesso?” le chiese Franca.
“Sì, sì” rispose distratta Chiara.
“E vedi di non farmele fare più certe figuracce.” finse di rimproverarla Franca, gettandomi uno sguardo complice.
Chiara, che nel frattempo si era seduta, si girò di scatto verso di lei come a voler protestare, ma poi tornò sbuffando al suo lavoro.
“Se hai bisogno di qualcosa, oggi puoi chiedere a me, ché la signorina qui ha le cose sue.” si rivolse a me Franca con un gran sorriso.
“Eddai!” si lamentò Chiara, ma tra i capelli che le coprivano in parte il viso notai un sorrisetto.
Non aveva una bella bocca, le labbra erano molto sottili, ma il suo sorriso mi piaceva. Se provavo ad immaginare lo stesso sorriso su un’altra bocca non ottenevo lo stesso effetto. Lei aveva le labbra giuste per quel sorriso.
“Ero solo qui di passaggio. Vado a farmi un caffé al bar perché stamattina non l’ho ancora preso” mentii.
Franca tossicchiò per attirare l’attenzione dell’amica.
“Oh, che combinazione,” disse “pensavamo proprio che ci servirebbe qualcosa dal bar. Cosa dici Chiara?”
“Non saprei. Sei tu la capa. Cosa hai in mente?”
“Una confezione di pastarelle? Non andrebbe?”
Chiara assunse un’espressione imbronciata, mentre si girava lentamente a guardarmi: “Mmh.. sì, perché no?”
“Ok allora.” disse Franca “Bruno, non ti scoccia vero portarci un vassoietto? Oggi siamo decise a rovinarci la linea.”
“Non c’è problema” ribattei io “che tipo di pastarelle volete?”
“Oh, fai pure tu. A tuo gusto, ci fidiamo” disse Franca euforica mentre si affaccendava nella sua borsa.
“Aspetta, ti do i soldi” aggiunse.
“Dai, non c’è bisogno. Offro io” mi opposi.
“Non se ne parla. Niente soldi, niente paste”

La passeggiata al Piazzale mi fece bene. Dopo un primo momento di crisi, durante il quale immaginavo ormai tutte le donne che mi passavano accanto mentre facevano pipì, riuscii a distrarmi concentrandomi nella scelta delle pastarelle.
Non mi avevano detto quante ne volevano e dovetti fare di testa mia. Prima mi orientai verso il numero di quattro poi ne aggiunsi una quinta sperando in cuor mio che me la offrissero per il disturbo.
La confusione dentro al bar, tra tintinnare di tazzine, colpi di filtro di caffé dietro al bancone e via vai di gente vociante, riuscì a rimettere in careggiata il mio cervello bacato, così, quando rientrai in ufficio, Chiara era tornata ad essere la bambola di stoffa come era sempre stata.
Intanto che ero fuori ne approfittai per comprarmi anche una birra ed un panino per il pranzo. Uscito dal bar mi recai in ultimo all’edicola per comprare anche il giornale, così non avevo più bisogno di uscire a mezzogiorno.
Al rientro confessai candidamente il giochetto del numero dispari di paste con l’espressione del cane bastonato che mendica un tozzo di pane.
Le due ragazze sorrisero apertamente. Chiara si sporse leggermente verso di me e con un sorriso perfido disse: “Me sa che t’ha detto male. Le paste non sono mica per noi.”
“Sono un regalo” cinguettò Franca.
Esalai un profondo sospiro di delusione.
“Che sfiga!” dissi.
“Ma non eravate voi a preoccuparvi della linea?” aggiunsi, dopo una breve riflessione.
“Beh, speriamo bene che qualcuno lasci qualcosa anche a noi” disse ridendo Franca, calcando il tono su quel ‘qualcuno’.
“Magari proprio la quinta tua” insinuò civettuola Chiara tornando a guardarmi con quei suoi occhi blu. Distolsi immediatamente lo sguardo.
Ma non si rendeva conto che aveva un’arma letale al posto degli occhi? Non poteva spazzare lo sguardo a destra e manca come niente fosse; non aveva gli occhi normali come tutti, avrebbe dovuto essere più responsabile. Andavano maneggiati con una cautela di cui lei non sembrava consapevole. Quegli occhi li doveva riservare solo ad un suo eventuale innamorato, ammesso che ne trovasse uno disposto a soprassedere su tutti gli altri difettucci. Per noi comuni mortali doveva dotarsi di un paio d’occhi di riserva, accidenti.
‘E non doveva andare al gabinetto’, continuai a pensare mentre mi ritiravo in laboratorio dopo avere brevemente salutato la compagnia.

A metà mattinata la routine aveva preso definitivamente il sopravvento sui miei disordinati pensieri. La musica di Joe Cocker faceva da sottofondo alle mie analisi mentre, tra un campione e l’altro, gettavo avide occhiate al bordo del lavello in cerca di piccole vittime a sei zampe da sacrificare al mio sadismo. Chiara e la sua pipì mi erano ormai indifferenti ad un punto tale da farmi dimenticare l’impegno preso con me stesso nei giorni passati.
In cuor mio sapevo che non ci sarebbe stata mai nessuna pizza. Io avrei continuato la mia vita come prima e lei la sua. Mi rendevo conto che non c’era nessuna infatuazione nei miei confronti e la cosa mi risollevava. Di positivo in questa storia mettevo che ora avevo con lei un rapporto più amichevole.
Per me, che ero uno straniero, la possibilità di avere un amico a Roma era una prospettiva bella. Non sarei stato così solo nei fine settimana; si sarebbe potuti andare in giro assieme e magari potevo entrare nella comitiva dei suoi amici, dove le ragazze più belle di lei certamente non dovevano mancare.
Però, per cominciare una amicizia, forse una pizza era d’obbligo. Almeno quello sforzo avrei dovuto farlo.
Mi strinsi nelle spalle. L’occasione non sarebbe mancata. Senza fretta.

Sentii bussare sommessamente e subito dopo la porta si aprì con esitazione. La testa bionda di Franca fece capolino, mentre dietro di lei intravidi la capigliatura corvina di Chiara.
“Possiamo entrare?” chiese Franca, facendo contemporaneamente un passo avanti senza attendere risposta.
“Prego.” feci io un po’ sorpreso “A cosa devo l’onore?”
Avanzarono quasi con cautela, dopo che Chiara si fu chiusa la porta alle spalle, con le braccia incrociate dietro la schiena e guardandosi platealmente attorno.
“Non ci vengo spesso qui,” disse Franca “però non mi ricordavo che non è proprio un posto dove farci una festa”
Chiara annuì con una smorfia.
“Non è vero” protestai ridendo “Adesso trovate un po’ di disordine solo perché l’ultima baldoria è finita da poco.”
“Che festa hai organizzato?” chiese Chiara incuriosita.
“Oh, beh!” risposi evitando di guardarla negli occhi “Ho fatto amicizia con una famigliola di pantegane e ogni tanto ci si vede qui per fare un po’ di casino”
Risero entrambe, poi Franca indietreggiò con fare teatralmente circospetto verso la mia scrivania, sempre con le mani dietro la schiena e senza perdermi di vista. Gettai uno sguardo interrogativo verso Chiara, ma i suoi occhi blu erano incautamente puntati su di me perciò tornai a guardare velocemente verso l’altra, che nel frattempo aveva posato sul ripiano della scrivania il vassoio di paste che io avevo comprato per loro.
“Auguri!” disse Franca con un gran sorriso.
“Auguri!” disse Chiara all’unisono dietro alle mie spalle.
Rimasi a bocca spalancata senza saper replicare.
Era il mio compleanno, ma non avevo mai pensato di festeggiarlo. Non lo sapeva praticamente nessuno e non avevo amicizie tali a Roma da sentirmi di condividerlo per festeggiare. Coloro ai quali pensavo veramente come amici erano tutti fuori in missione ed io avevo pensato di festeggiarlo in realtà durante il fine settimana che avrei passato a casa.
“Mancherebbe lo spumante, però non abbiamo osato chiederti di comprare anche quello perché avresti sicuramente subodorato la faccenda.” disse garrula Franca.
“Non c’era pericolo. Non sa manco che esistiamo!” mi rimbrottò Chiara con tono indolente.
Sorrisi impacciato.
“È certo una sorpresa” dissi “ma come facevate a saperlo?”
Chiara si avvicinò e mi prese sottobraccio con aria complice.
“Sai, ci sono i suoi vantaggi a frequentare l’ufficio del personale.” mi sussurrò all’orecchio.
Di nuovo sentii i peli della nuca rizzarsi, ma cercai di non farci caso.
“Io vi ringrazio, non so che dire. Mi avete proprio spiazzato” dissi, cercando di darmi un contegno mentre la mano di Chiara lasciava il mio braccio, ma io continuai a sentirne il calore sotto la stoffa della camicia.
“Non devi dire niente” affermò risoluta Franca “devi solo aprire il pacchetto e lasciarci dividere la quinta pastarella. Le altre sono tutte le tue”
“Ah no!” protestai ridendo “la quinta è la mia, voi vi dividete le altre quattro. I patti sono patti!”
“Ma come no! È la tua festa. Guarda! Abbiamo portato anche un raffinatissimo coltello di plastica proprio per dividerla.” disse Franca sventolandomi davanti al naso la posata.
“E io ho portato i tovagliolini di carta.” aggiunse Chiara posandoli sulla scrivania.
La guardai sospettoso perché continuava a tenere un braccio dietro la schiena. Franca intercettò il mio sguardo e si affrettò ad interporsi tra noi due.
“Naturalmente” disse “una festa di compleanno non è seria se non c’è anche il regalo. No?”
“E noi ti abbiamo fatto anche il regalo” aggiunse Chiara posando un pacchetto tutto infiocchettato sulla scrivania.
Lasciai cadere le braccia con gesto sconsolato: “Anche il regalo. Così mi volete proprio mettere in imbarazzo.”
“Ad un patto, però!” disse Franca posando risoluta una mano sul pacchetto “che tu lo apra solo dopo che saremo uscite di qui”
La guardai di sottecchi: “È uno scherzo allora!?”
“No, no!” si affrettò a rispondere “Non è uno scherzo. Anzi, è una cosa mo-olto seria. Però, conoscendoti un po’, preferiamo che tu lo apra quando noi siamo a distanza di sicurezza.”
Rise.
“Beh, non aspettarti chissà che.” disse Chiara timidamente “È solo un pensierino.”
“Che però ci ha tenute impegnate per una intera serata per trovarlo” aggiunse ironica Franca.

La festicciola fu piuttosto breve, stanti le urgenze di lavoro delle due segretarie, e le paste furono presto aggredite senza che nessuno dei tre si tirasse indietro. La più accanita delle mie avversarie nell’apprezzarle (io era noto a tutti come un goloso senza limiti) fu paradossalmente proprio Chiara, la più mingherlina del gruppo. Diceva che il suo metabolismo le permetteva qualunque stravizio.
Dopo che furono uscite guardai con sospetto il piccolo pacco regalo. Da una parte ero curioso di aprirlo, dall’altra ero titubante per paura di una delusione o peggio di uno scherzo.
Non era uno scherzo, almeno non completamente. Era un libro politico.
Tutti conoscevano le mie idee di comunista ortodosso e militante, con tanto di tessera del P.C.I. in tasca, e per questo ero sempre bonariamente preso in giro un po’ da tutti essendo l’unico in tutta l’azienda a professare apertamente tali idee con veemenza. Nessuno si interessava di politica ed io predicavo in pratica nel deserto. In ogni caso quasi tutti erano per lo più di idee moderate, se si escludevano un paio di colleghi di campagna, che si riconoscevano in Lotta Continua o Potere Operaio, e un dirigente, mio compaesano, che si professava socialista.
Di Franca non sapevo nulla, ma immaginavo avesse le stesse idee di Gianni che sembrava in tutto e per tutto un fascistone. Chiara non si sbilanciava; studiava e lavorava e solo per questo ero propenso ad inquadrarla come simpatizzante delle idee mie, ma in realtà poteva essere di tutt’altra parrocchia. In ogni caso con loro due non si erano mai fatti discorsi politici, ma solo cazzeggi vari.

Il titolo del libro era una vera e propria provocazione nei miei confronti: ‘Quel che non ha capito Carlo Marx‘ di Armando Plebe.
Conoscevo Plebe di fama. Un marxista rinnegato che nel ’68 abiurò le sue idee per passare nelle fila del M.S.I. Era quello che, per usare la terminologia cara alla sinistra extraparlamentare, si poteva definire un nemico del popolo.
Non avrei certo letto quel libro e mi dispiaceva che quelle due avessero buttato i loro soldi per arricchire uno stronzo solo per la voglia di prendermi un po’ in giro.
Aprii svogliatamente la copertina e sulla prima pagina bianca trovai la dedica scritta a due mani: ‘All’eremita della ditta con affetto Franca e Chiara‘ con due note tra parentesi sotto ognuno dei due nomi.
Sotto il nome di Franca c’era la scritta ‘(Perché tu no?)‘, mentre sotto l’altro nome c’era scritto ‘(Si è compromessa, vero?)‘.
Sfogliai senza convinzione alcune pagine.
Marx fu allievo perfetto nell’ereditare questa presunzione, così come nell’ereditare l’antipatia verso la natura
Dove sono i capitalisti padroni e despoti della società?
Sostanzialmente per il giovane Marx diventar uomo significava diventare gregario.’
Basta! Ne avevo già abbastanza della lettura del libro che chiusi sgarbatamente in un cassetto.
Mi alzai deciso, aprii la porta e a lunghe falcate mi diressi verso la postazione delle due “affettuose” amiche. Una volta giuntovi aspettai che entrambe mi guardassero ben bene e poi mostrai loro la lingua, girai i tacchi e me ne tornai in laboratorio, mentre dietro le mie spalle le sentii scoppiare in una risata.
“Dai, leggilo bene. Vedrai che ti piacerà” mi gridò dietro Franca.

Il resto della mattinata trascorse senza altre sorprese. Lavorai con lena e grande euforia in conseguenza della piacevole improvvisata che le due streghette mi avevano riservato.
Anche se il regalo non era stato di mio gusto alla fine lo accettai per ciò che era, un piccolo scherzo. In fin dei conti il vero regalo era stato organizzare quel minimo rinfresco, apposta per me.
Non misi più fuori il naso dal laboratorio fino a sera. Passai la pausa pranzo a sbocconcellare svogliatamente il panino, visto che le paste avevano lasciato il segno sul mio appetito, mentre curiosavo tra le pagine politiche del quotidiano.
Ero un lettore fedele de L’Unità che, prima di trovare lavoro a Roma, avevo anche distribuito su e giù per i vari piani dei condomini della mia zona.
Ricordai con piacere quella volta che mi ero trovato di fronte ad un uomo che non volle saperne assolutamente di acquistare il giornale e che, anzi, mi trattò parecchio male e con aggressività, sbattendomi poi la porta in faccia senza lasciarmi replicare. Rimasi per un po’ a fissare la porta chiusa, ferito nel mio amor proprio, poi stizzito decisi che il giornale glielo avrei comunque lasciato e glielo abbandonai sullo zerbino.
Quando fui tornato in sezione ed ebbi raccontato con orgoglio l’episodio non trovai un grande entusiasmo. Il giornale costava e non ci si poteva permettere di buttarlo via in quel modo. E poi non dovevamo imporre la nostra presenza agli altri: se uno voleva il giornale bene, altrimenti si passava oltre senza discussioni.

Perso nelle mie fantasie politiche ritirai fuori il libro dal cassetto. Sfogliai ancora qualche pagina: ‘… l’immagine che nei suoi scritti egli fornisce della società comunista è chiaramente quella di una società in cui, in odio alla cultura, l’improvvisazione e l’incompetenza sostituiscono la competenza.
Lasciai perdere e mi concentrai sulla dedica che era la cosa più seria di tutto il libro.
Le firme erano state scritte naturalmente da due mani diverse, ma il testo, con tanto di data, era sicuramente di Chiara e mostrava una grafia piuttosto allungata e morbida, mentre quella di Franca appariva più contratta e spigolosa. Notai che Franca, oltre alla propria firma aveva scritto anche la nota sotto il nome di Chiara: ‘(Si è compromessa, vero?)‘.
Ebbi un tuffo al cuore. La prima volta avevo letto le note nella stessa sequenza dei nomi, Franca e Chiara, e il tutto mi era apparso scherzoso, ma un po’ confuso. Adesso invece, isolata dal resto, quella frase brillava di luce propria e tornava a confermare le idee di cui volevo invece cominciare a dubitare.
Rimisi in fretta il libro nel cassetto. Non avevo nessuna di voglia di pensare a quella stramaledetta pizza. Non quel giorno almeno. Era la mia festa e non avevo nessuna intenzione di rovinarmela incaponendomi in inutili strategie velleitarie.
Alla fine dell’orario di lavoro sarei andato a fare un giro rilassante in via del Corso per farmi da me un regalo serio, e al diavolo le smancerie di Chiara e gli intrighi di Franca.
Mi buttai sul lavoro a testa bassa, anche per recuperare il ritardo accumulato nella mattina, e la rialzai solo quando ormai era sera.

Diedi un’occhiata all’orologio. Non avevo mai fatto così tardi e fortuna che era la mia festa.
Raccattai velocemente le mie cose, che buttai nella borsa, e mi fiondai lungo il corridoio, dopo un attimo di esitazione al pensiero di passare davanti alle segretarie. Le quali forse non avevano proprio apprezzato la mia scomparsa per tutto il resto del giorno, visto che si erano impegnate per farmi una cosa gradita.
Qualcosa mi sarei inventato.
Accolsi con sollievo il fatto che l’atrio fosse deserto. Era in effetti molto tardi ed erano praticamente già usciti tutti. Si sentiva solamente qualche voce isolata e attutita in una delle stanze dei dirigenti.
Prima di aprire il portone gettai un’occhiata verso la porta del gabinetto quasi col timore di veder riapparire Chiara.
Mi affrettai ad uscire e scesi le scale a due gradini alla volta fino all’ingresso, avviandomi poi frettolosamente verso Piazzale Flaminio.
Svoltato l’angolo del caseggiato con la via Flaminia mi arrestai di colpo. Davanti a me, distante pochi passi, c’era la sagoma inconfondibile di Chiara che con tranquillità si stava dirigendo verso le fermate dei bus.
Ed era sola.
Il suo passo era tipico e la faceva ancheggiare in un modo che evidenziava le sue gambette storte. Provai un attimo di tenerezza verso quelle gambette, poi mentalmente risalii fino al sedere e la immaginai di nuovo al gabinetto e tutto il resto.
Mi sentii avvampare. Non era esattamente il tipo di pensiero giusto per abbordare una ragazza per strada.
Poco coraggiosamente il mio primo istinto fu di cambiare direzione, attraversare la via Flaminia e poi dall’altro marciapiede andare direttamente alla stazione del trenino che mi avrebbe riportato a casa.

Però non lo feci. Questa era l’occasione che avevo cercato invano nei giorni precedenti, non potevo lasciarmela sfuggire.
Lei era lì, era la mia festa, eravamo in amicizia, la pizza ci poteva stare senza fraintendimenti.
Tirai un gran sospiro e mi decisi a raggiungerla cercando di scacciare i pensieri impudici.
Dopo pochi passi l’avevo affiancata.
“Signorina, la posso accompagnare per un tratto?” le dissi con tono affettato.
Lei si girò di scatto, sorpresa: “Ehi, ma ciao! Da dove sbuchi?”
Assunsi un’aria desolata: “Ho fatto un po’ tardi col lavoro. Sono rimasto indietro perché qualcuno mi induce in tentazione con delle orribili pastarelle.”
“Eh già, veramente orribili” convenne lei fingendo una faccia schifata “Praticamente mi hanno rovinato il pranzo. Ho lasciato tutto nel piatto”
Sorrisi con lei.
“Dove stai andando di bello?” le chiesi cercando di nascondere l’agitazione che si stava improvvisamente impossessando di me.
Lei alzò gli occhi al cielo come una martire: “E dove vuoi che vada? A casa. A studiare, come sempre.”
Sbuffò.
Ci fu un momento di silenzio imbarazzante. Con orrore mi resi conto che mi venivano a mancare le parole.
“Tu invece dove vai adesso?” mi soccorse lei.
“Mah. Avevo l’idea di fare una passeggiata lungo via del Corso prima di tornare a casa anch’io. Più avanti c’è un negozio di musica e pensavo di acquistare un po’ di spartiti per la chitarra”
La mia mano libera (l’altra teneva la borsa) gesticolava con un po’ troppa enfasi e mi imposi di tenerla in tasca.
“È vero che tu suoni la chitarra!” si ricordò lei radiosa.
“La suonicchio.” convenni.
“Un giorno mi fai sentire qualcosa?”
“Non ti conviene, dammi retta.” risposi ridendo, dandomi mentalmente dello stronzo. Perché non questa sera?
“Ti è piaciuto il nostro regalo?” chiese con uno sguardo beffardo di sottecchi.
“Lasciamo stare” replicai fingendo di essere arrabbiato.
Lei mi mostrò il suo bel sorriso.
“Ieri sera ci siamo andate noi in via del Corso. Ce semo fatte non so quante librerie per trovare il tuo regalo.”
Non riuscii a replicare con una battuta efficace per ironizzare su quella ricerca.
Nel frattempo eravamo arrivati alla piazzola di sosta, dove ci fermammo.
Di nuovo calò il silenzio. Forza, mi dicevo, chiediglielo. È fatta, basta aprire la bocca. ‘Perché non ci andiamo a mangiare una pizza stasera? In fondo è ancora la mia festa. Studierai domani.
Niente. Le parole non volevano uscire e cominciai a sentire un leggero tremore alle gambe e compresi che ero ormai nel panico.
“Beh, io devo aspettare qui il mio numero. Allora buona passeggiata.”
Lo disse con tono gaio, ma il suo sguardo era assente.
Annuii con la testa e borbottai un grazie.
Dopo un attimo di esitazione mossi il primo passo per attraversare il piazzale e andare in Piazza del Popolo.
“Ciao.”
“Ci vediamo domani.”
Mentre attraversavo faticosamente Piazzale Flaminio, cercando di schivare le macchine, mi davo mentalmente del cretino. Sentivo i suoi occhi azzurri penetrarmi la nuca, ma forse no. Lei in fondo non si aspettava realmente niente da me di diverso dal solito. Non si aspettava che una piccola nota di Franca mi illuminasse all’improvviso e certo non sapeva che io avevo capito tutto da tempo.
Arrivato alla porta di accesso alla piazza del Popolo un pensiero mi fulminò: Quel che non ha capito Carlo Marx!
Io ero Carlo Marx. Il comunista. Io ero colui che non aveva capito.
Mi girai a guardare il Piazzale, ma l’area di sosta dove l’avevo lasciata era ormai vuota. Il suo bus era probabilmente quello che in quel momento stava accelerando in direzione del Lungotevere sbuffando una polvere grigia dal tubo di scappamento.

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DOMENICA – UNA GIORNATA DA DIMENTICARE

Sul terrazzo veranda il buffet per la colazione è pronto.
Ho fame, ma non vorrei passare per cafone, anche se in realtà non si è parlato di orario di sveglia. Mi verso un succo d’arancia e controllo i tavoli. Ho fatto preparare anche un piccolo reparto di salato, nel caso qualcuno ne  gradisca anche a colazione,  e mi rendo conto di quanto poco conosca i miei colleghi. Eppure non è bastato per evitare il crearsi di illazioni e pettegolezzi che devo chiarire ed eliminare, possibilmente al più presto e con il minimo fastidio. Dovrei preparare un piano, augurandomi di riuscire poi ad attuarlo in giornata. Potrei cominciare a preparare il discorsetto: deciso, ma gentile, senza enfasi, ma con profondo rammarico; sarebbe già un buon punto di partenza.
Vediamo un po’: potrei esordire con Cara Chiara.. no, no, cara un cavolo!
Chiara, so che voci di corridoio affermano che sei innamorata di me….non ci siamo, troppo diretto.
Sai Chiara, si dice che sono innamorato di te, ma in realtà sono pettegolezzi, perché io, sono un single convinto- peggio che andar di notte, ma perché è così difficile? Forse meglio lasciar perdere il discorsetto e affidarmi al come viene viene, quando sarò riuscito a trovare Chiara da sola. Perché l’ostacolo principale è proprio la presenza costante di Franca.
Il ‘giorno’ di Francesco, scaccia  i miei maldestri tentativi.
«E gli altri?» – chiedo
«Stanno arrivando, sono svegli, si sentono voci e movimenti » – mi risponde con la solita voce pacata, mentre fa scivolare nel piatto una fetta di torta da 3000 calorie.
«Alla faccia della linea!» – commenta Franca, facendo la sua apparizione con gli altri due a seguito, e lanciandosi a sua volta sul buffet. Si serve anche lei una maxi porzione di torta, ne passa una ancora più maxi a Gianni e mugolando di piacere si inizia la giornata.
Chiara è visibilmente sulle spine, immobile come una statua di sale davanti ad un tavolo, con espressione indecisa, smarrita, come se non sapesse cosa scegliere, mentre cerca di attirare l’attenzione dell’amica  che per il momento però, è in tutt’altre faccende affaccendata.
La osservo perplesso ed irritato, diamine, con tutto quel ben di Dio, non c’è niente che l’attira? Decido di intervenire e mi avvicino:
«Qualcosa non va, dolce fanciulla?» – chiedo – «non dirmi che non c’è niente che ti piace, su questa tavola!»
«No.. Sì.. Veramente… » – mormora lei con un fil di voce – beh, io vorrei…»
«Vorrei andare a Messa» – termina Franca per lei. Finalmente la chioccia torna fra i mortali e riprende il suo ruolo.
«E fare la comunione» aggiunge  Chiara.
Stringo i denti per bloccare la fila di imprecazioni toscane che mi sono venute spontanee: e ce la faccio!
«Mi dispiace, Chiara,  per la comunione è impossibile; per la messa noi  (bello questo plurale majestatis) non siamo in grado di risponderti, però possiamo subito chiedere ragguagli alla servitù, è pane per i loro denti!»
«Io pensavo…avevo visto la cappella e..» quasi si mette a piangere e devo stringere ancora di più i denti per non esplodere.
«La cappella?? Ah, già.. c’è, ma da molti anni, ormai è solo un accessorio della villa, nessuno la usa più, ormai. Vediamo di fare qualcosa per la messa, almeno!»
È Rosa la cuoca che ci illumina: a Punt’Ala celebrano solo una messa alla sera, ma a Follonica ci sono alcune parrocchie  dove le messe vengono celebrate ogni ora, per tutta la giornata.
Con un sospiro di sollievo Chiara chiede: « Chi mi presta la macchina?»
«Scherzi?» – interviene subito Gianni – «ti accompagniamo noi, e dopo, magari già che ci siamo andiamo a fare un salutino alla Ginosta che passa l’estate giusto a Follonica. Vieni anche tu Francesco?»
«No, io rimango, non possiamo lasciar solo il nostro anfitrione.»
Meno male che qualcuno ha un po’ di rispetto! Ma faccio il generoso.
«Va pure con loro, se vuoi salutare anche tu la Ginosta. E magari anche la messa ci può stare!»
«Assolutamente no » – ribatte – «dovresti saperlo che il mio vangelo è Voltaire. E con la Ginosta non sono molto in confidenza, qualche ciao in sala professori e morta lì.»
«Allora noi andiamo,» – dice il terzetto e mi liberano della loro presenza e finalmente posso esplodere! Sono semplicemente idrofobo! Maremma puttana, mi mancava una figlia di Maria! ma sentila, sentila, la santarellina, la cappella, la messa, dove crede di essere, in Vaticano?
Francesco esita un attimo, poi fissandomi negli occhi mormora:
«Scusa se te lo dico, ma potevi proprio risparmiartela quella cattiveria!
Rimango basito, poi gli sorrido:
«Hai ragione – dico stranamente umile – non capisco perché mi sia sfuggita una simile battuta. Mi ha infastidito che si allontanasse perché – tento di rimediare – oggi volevo trovare un momentino adatto per chiarire la situazione.
«Non capisco» – replica stupito – Probabilmente mi sono perso qualcosa!»
«Ma sì, questa storia del fatto che sia cotta marcia di me. Sempre secondo voi, s’intende. Io invece sono lontano galassie e vie lattee assemblate, e vorrei farle capire che perde il suo tempo, e che volga altrove le sue mire, sempre che ne abbia e abbiate ragione voi..»
«Hai ancora un po’ di tempo, allora. Ma certo, è meglio che definisca tutto al più presto. Io però, non ne sapevo niente…»
«Tu, da bravo filosofo, stai sempre distratto » – lo sfotto…
«Non è che sono distratto, ho la testa fra le nuvole!» anche lui mi prende in giro.
Sfoglio di mala voglia il giornale, ma sono pervaso  da un disagio sottile.
«Quando torneranno?,-  chiedo al filosofo.- dovrei regolarmi per il pranzo..
Francesco esita un po’, imbarazzato, sembra indeciso se parlare o meno.
«Su, dai, sputa il rospo. Cosa altro ho fatto di storto?
«Tu niente, non si tratta di quello… Solo che se conosco la compagnia non penso li vedremo tornare prima di sera tardi.
«Stasera?
«Non sei molto intuitivo, eh Bruno? Non ti è sembrato strano che Gianni abbia preso l’iniziativa ma non ti abbia invitato? La realtà è che la Ginosta ha un suo piano, ben preciso.  Figurati se la pettegolona si perde l’occasione di spettegolare su di te. Li inviterà a pranzo, li porterà a mangiare nel ristorante di suo cugino, dove tra l’altro si mangia il miglior pesce del Tirreno, per farsi descrivere ogni particolare della tua casa. Vorrà verificare se sei un millantatore e  se le riesce il colpaccio, farsi invitare per controllare di persona. Potrei scommetterci lo stipendio di un anno.
«La conosci molto bene» – esclamo allibito
«Se scendessi fra noi comuni mortali, in aula professori ti accorgeresti di molte cose. Non ti sei meravigliato anche del fatto che Michele non sia venuto? lo ha tormentato abbastanza, per sapere, al punto che lui le ha mentito assicurandole  di non essere mai stato qua. E ben sai quanto sia difficile che Michele dica una bugia!»
Già, Michele si farebbe torturare piuttosto, è la lealtà in  persona e spesso mi meraviglia molto che sia amico mio! Non mi sono ancora riavuto dalla sorpresa che le previsioni si avverano, rimarranno a pranzo da Lei, che per altro invita anche noi due a raggiungerli.
«Che cuore tenero!» ironizza Francesco -«non vuole lasciarti solo! così pensa di riuscire meglio ad incastrarti e farsi invitare per toccare personalmente!
Figuriamoci!  piuttosto mi metto una corda al collo.
Ok, messaggio ricevuto eccomi, snobbato e in castigo dietro la lavagna. E chissenefrega!
«E noi che facciamo? – chiedo cercando di mascherare il malumore – possiamo prendere la barca e fare un giretto per le cale. L’hai mai sentita la musica di Cala Violina?» chiedo all’ospite superstite.
«No, niente barca per me, preferirei la tua biblioteca, se non hai niente in contrario. Ho già notato diversi testi interessanti!
«Vada per la biblioteca. – dico a Francesco – è tutta tua. Io invece esco in barca, ho bisogno di rilassarmi. Tu ordina quello che vuoi, per il pranzo, Rosa è a tua disposizione.» Ma prima che sparisca sulle scale lo blocco.
«Dimmi la verità.. tu la conosci troppo bene, la tipa!»
«Ebbene sì, da lunga data.. ma te ne parlerò un’altra volta!» innesta il turbo e sparisce.
 
Prendo la “barca” e mi dirigo verso Cala Violina, già invasa dai turisti. Non si potrebbe scendere, per la verità, ma le leggi sono fatte per essere infrante, e la spiaggetta pullula di seni al vento, chiappe all’aria, e altra mercanzia.
Rimango al largo, mi metto a pescare, con l’idea di farmi un bel pranzetto, e in attesa del pesce penso a Francesco, professore di filosofia e al suo strano comportamento. Mi sa che dovrò rivedere il mio giudizio, su di lui, ne sa più di quello che dimostra. Fisicamente non è certo un granché, uno di quei tipi che potrebbero tranquillamente svaligiare una banca e uscire tranquillamente dalla porta principale senza essere notato, un tipo comune, insomma. Caratterialmente siamo troppo diversi, agli antipodi direi:  io duro, intransigente, granitico, eternamente sul piede di guerra,  lui mite, dolce, comprensivo (sin troppo, non so se per indole o per influenza della materia che insegna). In ogni caso a me fa una rabbia matta.
Se è lui a dover giustificare un ritardo, accetta tutto, dal tram che non arrivava al ricovero della nonna, da un mal di pancia improvviso, alla sveglia che non ha suonato; insomma se gli dicessero “sono in ritardo perché ho aiutato una vecchietta ad attraversare la strada” non solo accetterebbe la giustifica, ma aggiungerebbe una lode per la buona azione! E naturalmente gli studenti se ne approfittano, ma se a lui la cosa scivola via, io mi imbufalisco.
 
E intanto oggi il pesce è in ferie. Anche lui è andato a Messa? Ci sono cattedrali in fondo al mar Tirreno? e qui viene spontaneo pensare a Chiara…
Già. Chissà come sono nate certe voci. Sicuramente, alla luce delle rivelazioni di Francesco c’è di mezzo la Ginori, ma da dove può essere partita quella strega? Non mi sento responsabile, ma per scrupolo ripercorro l’iter. Dunque,  Chiara è arrivata da poco più da due anni, da quando è esplosa la mania dell’inglese. Sembra che sarà la lingua del futuro, e che i rampolli torinesi non possano essere privati di tanta conoscenza, così su richiesta dei genitori, il preside ha acconsentito ad inserire anche un corso facoltativo di inglese. Non so come e perché sia stata scelta Chiara, e neppure mi interessa, so solo che adesso è qua. Sinceramente non l’ho mai guardata troppo, a volte mi fa l’impressione di un topolino mezzo affogato, altre di una povera cenerentola. Sempre ordinata, per carità, sempre dignitosa in quegli abitucci da quattro soldi, naturalmente sempre tinte neutre, mai un tocco di colore, mai un filo di trucco, e ben poche sedute dal parrucchiere. Gli occhi sono di quell’insulso color topo, i lunghi capelli neri, raccolti in uno chignon  che non valorizza certo i suoi lineamenti, le danno un’aria da istitutrice, accentuata dagli occhiali  quando è seduta al tavolo a correggere i compiti in classe. Il tutto mi mette in corpo uno strano malessere, per cui evito di guardarla. E neppure lei sembra colpevole. Non l’ho mai sorpresa a guardarmi, e oltre al solito ciao, se ci si incontrava, non faceva altro. Si era subito incollata a Franca, e non c’era altro da aggiungere.
Al tramonto rientro con una luna storta, che non basterebbero 1000 geometri per raddrizzarla.
 I tre non sono tornati, Francesco è ancora in biblioteca.
Che vadano tutti al diavolo, mi verso una doppia razione di bourbon, e vado a dormire.
Una giornata da dimenticare, colpa di quella stupida baciapile, lei la sua messa, la sua aria da santarellina, lei, l’acqua cheta che travolge i ponti.
La odio.
Quando rientrano, verso mezzanotte, neanche troppo silenziosi, faccio fatica a non alzarmi per invitarli a far silenzio.
Ma domani la faccio finita, e non so se avrò voglia di usare i guanti bianchi. Se vogliono andarsene tutti tanto meglio, io riparto immantinente per Cortina.
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